di Raffaele Morese
(relazione convegno Koinè ''Chi e come darà priorita' al lavoro?'')
La prudenza avrebbe consigliato di rinviare questo Convegno. Era stato pensato e costruito nella convinzione di un risultato limpido delle elezioni politiche e quindi di interlocutori certi con cui confrontarci. Gli italiani ci hanno spiazzati, meravigliati, spaesati. Così, i tempi delle incertezze si sono inevitabilmente allungati. Le parole sembrano perdere significato, specie quando la discussione prevalente riguarda l’antefatto (“tutti a casa”, “via i privilegi della casta”, “basta con l’austerità”ecc.) e non il fatto (il bene comune, l’interesse generale). Sia chiaro, il primo è sacrosanto, specie per l’inerzia che sui temi dei costi della politica hanno dimostrato finora i partiti. Ma il secondo non può essere relegato in un “dopo” indefinito, perché il tempo purtroppo non è una variabile indipendente.
Siamo andati contro corrente. Abbiamo confermato questo appuntamento, convinti che non fosse fuori tempo e luogo. Sostanzialmente per due ragioni. La prima, che la società civile non deve ammutolirsi o lanciare soltanto appelli. Stare zitti, vuol dire non favorire occasioni e possibilità di dialogo ed invece, questo è il momento di confrontarsi perché la democrazia non è soltanto voto. Gli appelli, a loro volta, sono utilissimi e non facciamo fatica a riconoscerci in quelli costruttivi; ma occorre tenere alto il tiro sulle questioni che necessitano di senso di marcia, di decisioni, appunto, di governo.
Infatti, la seconda ragione riguarda lo stato in cui versa il Paese. Somiglia sempre più ad un treno con alcuni vagoni ancora in buono stato, altri malridotti, altri fortemente danneggiati e in allarmante crescita. Questo treno sta rallentando da qualche anno la sua corsa lungo il binario del benessere, ma ora sembra aver preso l’abbrivio e rischia di deviare pericolosamente su quello che lo può portare nei paraggi del default. Alcuni considerano questa prospettiva reggibile, finanche desiderabile, addirittura conveniente. Noi apparteniamo a quelli che non amano lo sfascio, pur sapendo che il treno l’hanno reso sgangherato anni e anni di malgoverno. Apparteniamo, piuttosto, a quel mondo che vuole sforzarsi di adottare categorie interpretative nuove, adatte ai cambiamenti epocali in atto e quindi scelte innovative, per non rimanere legati al passato.
Di conseguenza, indipendentemente che si faccia un Governo – sempre auspicabile, ma anche da valutare sia come qualità dell’alleanza, sia come robustezza di programma – o si debba ritornare al voto – cosa in sé non drammatica, ma resa tale dall’indigeribile riproposizione del “porcellum” – quello che occorre mettere in primo piano è l’emergenza economica e sociale del Paese e come dice il titolo del Convegno, “chi” si rimboccherà le maniche e “come” si darà priorità al lavoro.
Innanzitutto, è chiamata in causa l’Europa. Storicamente l’Italia è sempre stata europeista. Ma in queste elezioni, la maggioranza degli italiani ha dato retta a chi ha sbeffeggiato lo spread, a chi ha evocato il referendum sull’euro, a chi ha lanciato la moneta padana. Questo avventurismo va smontato. Senza Europa saremmo ancora più impoveriti economicamente, più emarginati socialmente, più indeboliti politicamente. Però, questa consapevolezza non basta. Occorre la rivitalizzazione di un’Europa veramente solidale, che creda nella sua coesione non solo monetaria ma anche politica, che non si limiti ad imporre virtuosità soffocanti ma si proponga come volano di un “new deal” continentale. Le forze politiche europee più avvedute, presenti nel Parlamento europeo, devono correggere, come sembra stiano tentando, i tagli al bilancio decisi dal recente Consiglio Europeo dell’8 febbraio; devono, nello stesso tempo, convincere la BCE a non far rafforzare troppo l’euro e flessibilizzare il fiscal compact alle esigenze dei singoli Paesi, condizionando soltanto agli investimenti le maggiori risorse messe così a disposizione; devono mettere in agenda la formazione dell’Europa politica.
E il segnale che si vuole andare effettivamente verso questa prospettiva resta la soluzione strutturale e non solo monetaria che si darà alla questione della gestione unitaria dei debiti sovrani. A questo argomento, Koiné ha dedicato un seminario il 16 febbraio 2012, individuando come percorso più realistico quello di una ristrutturazione del debito di ciascun Paese, attestandolo ad un rapporto debito/Pil condiviso da tutti; i surplus andrebbero convogliati in un Fondo europeo che, a garanzia, emetterebbe eurobonds. Di questa complessiva chiamata in causa dell’Europa discuteremo nella mattinata, con il contributo di competenti interlocutori, sulla base dell’autorevole relazione che ci farà il Presidente Amato.
In secondo luogo, entrano in gioco il futuro Parlamento e il futuro Governo. Li mettiamo insieme perché deve essere chiaro che, per dare priorità al lavoro, bisogna evitare almeno di fare vecchi errori. Nel pieno di una crisi occupazionale senza precedenti, nella quale l’unica cosa che cresceva era il numero dei giovani disoccupati e l’unica cosa di cui si occupavano le parti sociali era come evitare i licenziamenti collettivi, Governo e Parlamento si sono concentrati, per buona parte del 2012, sul tema dell’articolo 18, il licenziamento individuale. Come esempio di collegamento tra rappresentante e rappresentato è un capolavoro ineguagliabile.
Per scongiurare discussioni fuori fase, c’è un solo modo. Rimanere ancorati all’economia reale, alle esigenze concrete del lavoro. Bonomi e Dell’aringa saranno gli stimolatori di una discussione molto qualificata su questo fronte. Da parte mia, ci tengo a dire che i due riferimenti suggeriscono che Parlamento e Governo si dedichino, per quel che è essenziale, a riscrivere il già scritto (per gli esodati è una necessità), ma soprattutto si concentrino nella definizione di interventi mirati a dare man forte al sistema manifatturiero italiano. E questo significa: non far chiudere le aziende, specie quelle che hanno ordini ma non liquidità, semmai perché sono piene di crediti verso una Pubblica Amministrazione che non paga; a favorire la crescita patrimoniale e dimensionale delle imprese, delle cooperative e delle loro reti, per reggere l’impatto con la globalizzazione; a potenziare settori strategici come la banda larga e quello della green economy; a dare un senso vero all’aumento della produttività che non riguarda soltanto le modalità di lavoro, ma il rapporto tra innovazione dei prodotti, tecnologia, organizzazione del lavoro. Quindi, molto sostegno alla ricerca e alla formazione nelle aziende. Anche questo è politica industriale.
Un tempo, invece, il valore aggiunto poteva essere assicurato dall’”olio di gomito” degli operai e quindi dall’intensità della loro prestazione. Ora, la qualità della nostra produzione sarà competitiva se – in combinazione con un miglioramento delle economie esterne, prima fra tutte quella della giustizia civile – il sistema aziendale nel suo complesso, riesce ad ammodernarsi in continuazione e in tutte le sue componenti. In questo contesto, la componente costo del lavoro va alleggerita dal lato dei contributi che la appesantiscono, ma va irrobustita dal lato dei salari netti erogati. Anche perché la qualità professionale dei lavoratori deve necessariamente crescere. Qualifiche basse e salari bassi non sono un buon fondamento per un sistema produttivo che vuole rimanere nei piani alti delle performances mondiali.
Ma non basta. Non c’è disegno industriale, non c’è politica dei servizi privati e pubblici senza una strategia per l’occupazione. E’ stato detto: stiamo perdendo una generazione. Non ce lo possiamo permettere, né rifugiarci nell’assistenzialismo. Dove c’è il reddito minimo di sussistenza, questo è sempre legato ad un’esperienza di formazione o di studio e lavoro. Far arrivare a casa un assegno e dire”arrangiati”, non è buona politica verso i giovani disoccupati, ma neanche verso gli adulti che perdono il lavoro. Ci vogliono: un programma per almeno 200.000 giovani da far assumere a part time, defiscalizzato totalmente per tre anni; un progetto triennale di tirocini formativi nelle aziende per tutti gli studenti delle ultime classi delle scuole superiori; un potenziamento delle politiche attive coordinate dal pubblico e gestite anche dal privato autorizzato, ma con tutors obbligatori che facilitino la ricerca del lavoro. E se tutto ciò è insufficiente per non far crescere la quota dei disoccupati, bisogna pensare a forme di ripartizione del lavoro esistente, che può avvenire soltanto per via contrattuale, dato che deve compatibilizzarsi con le esigenze di produttività delle aziende. Soltanto in questo caso, l’intervento pubblico di sostegno (come per esempio, la possibilità di poter fare metà pensione e metà lavoro) avrebbe una reale efficacia.
In definitiva, Parlamento e Governo dovrebbero concentrarsi più sulle misure direttamente a sostegno dell’economia reale, che sugli aspetti regolatori delle materie lavoristiche. Non sono queste che creano lavoro; spesso favoriscono - sia pure involontariamente - quello nero. Meglio misure meno roboanti ma che innescano l’impegno imprenditoriale ad agire, l’allargamento della capacità di spesa della gente, la consapevolezza che la solidarietà rende più felici che l’individualismo. In altre parole, dare lavoro è preferibile che dare assistenza, la quale deve essere sempre considerata l’ultima, disperata carta da giocare.
In questa veloce carrellata di responsabilità da esercitare, non si può non dire nulla sulle parti sociali e sul sindacato, in particolare. La lettura del voto del 25 febbraio non può limitarsi soltanto alla dimensione della politica. Quel voto è anche, se non soprattutto, espressione del disagio sociale che è emerso trasversalmente da tutta la popolazione italiana. Esso interpella anche le rappresentanze della società civile. Non ci sarà demagogia politica e parlamentare che possa dare sbocco positivo all’eterogeneo malessere che ha colpito, con la crisi economica, questo Paese. Ci dovrà essere per forza un nuovo protagonismo delle forze sociali. Senza il loro contributo, non c’è sfilacciatura che possa essere ricucita. Quello che hanno fatto finora, nel bene e nel male, evidentemente, non è bastato. La rimonta di una situazione così complicata, implica che si faccia di più e meglio, sul terreno proprio delle relazioni sindacali, della contrattazione, dei poteri gestionali nelle aziende e nel territorio.
E’ molto importante che l’immobilismo politico non contagi le dinamiche sociali, che il confronto non sia monopolizzato dalla dimensione politico-governativa, semmai alla ricerca di nuove leggi regolatorie. Oltre non vado, perché le parti sociali – fra l’altro qui, altamente rappresentate - sono sufficientemente avvedute per comprendere che hanno una grande responsabilità nell’orientare il futuro del benessere di questo Paese. Aggiungo soltanto, soprattutto verso il sindacato, che sarebbe un enorme messaggio di speranza se tornasse di attualità il tema di una nuova confederalità e della loro unità. Non quella accompagnata da rulli di tamburo e fuochi d’artificio, ma quella meno eclatante della comune ricerca di soluzioni condivise da prospettare ai propri iscritti, alle controparti, all’opinione pubblica. Una unità non di facciata, ma sostanziale e che regga il confronto con le difficoltà del momento e i rischi di divisione.
Da inveterato ottimista, resto fedele alla regola per cui ciò che avviene nella struttura è decisamente più solido di ciò che si può realizzare a livello della sovrastruttura e quindi che la dimensione del sociale ha una sua forza intrinseca che può esercitare, specie in tempi di grande incertezza, un’azione di indirizzo rassicurante. In ogni caso, l’auspicio è che il sindacato parli ai padri ma anche ai figli, che punti a fare sempre di più e al meglio il proprio mestiere, che favorisca scelte forti per l’economia reale, che lo faccia senza divisioni. Il bene comune – per affermarsi - ha bisogno di questo sforzo di protagonismo sindacale, che coinvolga anche le rappresentanze imprenditoriali e quante altre rappresentanze in questo momento sono disponibili a mettere da parte la pur legittima esigenza di far valere la propria identità, per assicurare al Paese una prospettiva più accettabile.
Anche se vanno apprezzate le scelte fatte dal Parlamento per le Presidenze del Senato e della Camera, non ci sfugge che viviamo una fase non normale, scorrono giorni pieni di notizie e fatti scoraggianti. Si intravedono periodi faticosi e angoscianti, per fasce crescenti di italiani. Per poterli affrontare - cercando di dare una prospettiva alle persone – c’è la necessità di andare oltre la “sopravvivenza”, che pure è vitale ed imprescindibile. Occorre una capacità persuasiva che attiene al senso da dare a un futuro, meno individualistico e più solidale, con meno solitudine e più coralità, meno consumistico e più colto. C’è bisogno di “visionari” (nel senso della visione e non della pazzia) che allarghino le prospettive della nostra vita, che ci facciano uscire dalla logica dell’ emergenza, che ci aiutino a dare valore allo sguardo lanciato più lontano della quotidianità. In definitiva, è il momento giusto per una classe dirigente che si sappia compromettere con il futuro. Una classe dirigente che sia rinnovata dal punto di vista anagrafico, che è essenziale ed importante, anche se non assicura di per sé un cambiamento salvifico. Ciò che più conta è il cambiamento delle idee, della qualità delle innovazioni proposte, delle energie che rimette in moto, della partecipazione che innesca soprattutto tra le giovani generazioni. Nessuno può andare o essere mandato nella riserva, nessuno si deve sottrarre all’impegno di dare il proprio contributo affinché la sofferenza e la delusione vengano sostituite dalla speranza e dalla voglia di osare.