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Il voto di protesta

 

di Pierre Carniti

Stando alle ultime sortite le speranze residue, soprattutto di Casini, Alfano e Maroni, sembrano aggrappate alla possibilità di promuovere un “election day”. Di raggruppare cioè, assieme alle elezioni regionali già previste a febbraio, anche quelle nazionali. Ovviamente  la motivazione è che occorre risparmiare soldi pubblici. Considerato che siamo in tempi di vacche magre. Tuttavia, questo intento lodevole è al massimo accessorio, marginale. Se non addirittura strumentale. Perché la giustificazione vera è che qualora il voto regionale dovesse precedere di qualche mese quello nazionale difficilmente si riuscirebbe ad evitare una replica di quanto è avvenuto  in Sicilia. Vale a dire: la vittoria dell’astensionismo, l’avanzata dei grillini ed il crollo dei consensi per le forze della Seconda Repubblica. Non occorre essere degli esperti di “scienze politiche” per capire che un simile responso, alla vigilia della competizione per il rinnovo del Parlamento, potrebbe manifestarsi letale per la tenuta dell’attuale sistema. Quindi l’impegno a cercare di unire nella stessa giornata i test regionali con quello nazionale è  funzionale al disperato tentativo di partiti impegnati a scongiurare il rischio di soffocamento. Che provano a mascherare la perdita dei consensi. Che immaginano di riuscire a rinviare il più possibile nel tempo la propria fine.  Che non disperano circa la possibilità che possa addirittura verificarsi un improbabile miracolo. Si possono dunque capire le ragioni di questi maneggi, di queste furbizie che assorbono la maggior parte delle energie degli alchimisti (e dei notabili) della politica. Tuttavia essi farebbero bene a non dimenticare che le astuzie della volpe non entrano mai nella testa del leone. Il quale agisce (e reagisce) sempre seguendo soltanto i propri istinti.

 

La valutazione della proposta di un election day non cambia nemmeno in presenza della considerazione, sulla quale insistono i suoi devoti, che costituirebbe una sorta di ultima Thule per sbarrare la strada all’antipolitica ed ai rischi per la democrazia che essa comporta. La ragione di tale contrarietà è semplice. Tanto il grillismo, che l’astensionismo hanno poco o niente a che fare con l’antipolitica. Infatti più che una contrapposizione alla politica essi sono piuttosto la manifestazione di una ribellione, di una scissione, di una secessione dalla politica. Insomma, più che il rifiuto della politica sono la richiesta di un’altra politica. Che si esprime, appunto, ricorrendo al combinato disposto di due modalità di protesta. Distinte ma convergenti. Quella attiva del voto ad un movimento populista, programmaticamente antisistema, e quella passiva dell’astensionismo.

In effetti, il movimento di Grillo è così poco antipolitico che propugna una serie di obiettivi la maggioranza dei quali può essere tranquillamente sostenuta anche dalla maggior parte degli elettori di centrosinistra. Alcuni obiettano però che assieme  all’indicazione di un buon numero di mete collettive condivisibili, Grillo spara anche un discreto numero di sciocchezze. E’ sicuramente vero. Ma, parliamoci chiaro, questo per la politica non ha mai costituito una remora. Basti pensare alle smargiassate e stupidaggini propalate da Berlusconi che, a differenza di Grillo, è stato per parecchi anni nientemeno che presidente del Consiglio. Oppure alle castronerie di Polillo, sottosegretario al Tesoro dell’esecutivo Monti. Che pure sembra apprezzato dalla compagine di tecnici attualmente al  potere. Considerato che, con una discreta frequenza, viene spedito in televisione ad illustrare i presunti rimedi del governo sui diversi problemi economici.

Ma se non si tratta di antipolitica, cos’è dunque che deve preoccupare della crescita del grillismo? A mio avviso i motivi di inquietudine sono fondamentalmente due. Il primo è che il movimento di Grillo non ha un progetto politico. I movimenti di protesta politica e sociale (nella storia italiana, ma non solo) hanno sempre dovuto (e debbono tuttora) fare i conti con un passaggio molto delicato, complesso e difficile: dal no al si. Passaggio che spesso si è rivelato fatale. E che consiste nel sostituire alla demagogia, all’attacco degli avversari, la dimostrazione di una propria costruttiva capacità politica. Cioè l’attitudine ad utilizzare e valorizzare il consenso raccolto finalizzandolo appunto alla realizzazione di un chiaro, comprensibile, progetto politico. Cosa invece del tutto estranea nei propositi del movimento 5 stelle. Il secondo motivo di preoccupazione ha a che fare con la natura del movimento. Il partito di Grillo può infatti essere definito una “autocrazia”. Al massimo una diarchia. Se si pensa che il potere del boss indiscusso può (in una qualche circostanza) essere condizionato anche dai suggerimenti del guru. D’altra parte, la conferma che si tratti di una struttura governata in modo autoritario si ha considerando, tra l’altro, l’editto, il proclama, con cui il capo ha stabilito (senza alcuna discussione o contradditorio) a chi può essere riconosciuto il diritto di elettorato attivo. Oppure l’interdetto scagliato, sempre da Grillo, contro la consigliera comunale di Bologna che, avendo accettato l’invito di Ballarò, si sarebbe inconsapevolmente prestata ad una sorta di trasgressione sessuale. Per non stare a farla lunga, le ragioni di preoccupazione per l’esplosione del grillismo sono riconducibili al fatto che noi mortali non siamo in grado di immaginare come un Movimento incapace di democrazia al proprio interno possa diventare lo strumento per migliorare la democrazia nel Paese.

Neanche il massiccio astensionismo che si è verificato in Sicilia può, a mio giudizio, essere classificato nella categoria dell’ “antipolitica”. Caso mai è una delle modalità (per quanto discutibile) che può assumere la protesta politica. Esso è infatti il prodotto dell’idea che si possa alzare la voce contro i partiti, contro la casta, senza alzarsi dalla poltrona di casa. E’ il risultato del convincimento (erroneo) che sia una forma di protesta sufficiente ad esprimere una contestazione contro partiti considerati restii a misurarsi con i problemi veri ed invece corrivi alla corruzione. Opinioni quanto meno controverse. O, se si preferisce, del tutto infondate. Resta tuttavia il fatto che esse non hanno nulla, o ben poco, a che fare con l’antipolitica. Semmai sono la manifestazione di un disamore, di un distacco, da una politica giudicata venale, inquinata, depravata. L’aspetto che qui però vorrei sottolineare è che una tale forma di separazione, di disunione finisce per altro con il produrre effetti paradossali.

Il voto di protesta ha senso infatti solo se è in grado di esprimere anche una alternativa. Altrimenti è soltanto una agitazione inconcludente. Una sorta di “molto rumore per nulla!”. Oppure una delle modalità che consente (come ritiene Carlo Galli) di resuscitare il gattopardismo tipico della politica italiana. Cioè maggioranze instabili, a geometria variabile. Con l’aggiunta appunto di una paradossale novità. Che cioè la maggioranza dedita alla protesta sia governata dalla minoranza che vota. Che, a ben vedere, è un modo come un altro per lasciare tutto com’era. O per preparare un futuro diverso, ma peggiore. Per questo ritengo che l’astensionismo sia complementare al voto antisistema. Al quale va quindi sommato.

C’è da chiedersi però: qual è la ragione che lo fa proliferare? Il motivo, secondo Pierre-André Taguieff, è che molti esclusi, poveri, diseredati e precarizzati ormai non si aspettano più niente dal sistema politico. Oltre tutto essi si percepiscono come gente che non ha più niente da perdere. Danno così vita ad una categoria di “senza speranza”. E’ evidente che, se Taguieff interpreta correttamente le dinamiche politiche-sociali in atto, ci sono seri motivi di preoccupazione. Non è infatti necessario essere scienziati sociali per rendersi conto che in una società nella quale cresce il numero di quanti ritengono di non avere più niente da perdere può succedere di tutto. Compreso un aumento esponenziale della violenza e della guerra di tutti contro tutti.

In una situazione del genere, se alcuni partiti pensano che possa bastare un esorcismo, un semplice escamotage, un espediente come l’election day è evidente che essi non sono più portatori di alcuna soluzione. Al contrario sono ormai trasformati in parte del problema. Lo sono anche quando riconoscono (come ora fanno pressoché quotidianamente) che, se oltre la metà dell’elettorato decide di disertare le urne, se il suffragio a Grillo dilaga, questi vanno letti come segnali di un disagio, di una protesta crescente.  Sono ormai parte del problema anche quando assicurano il loro impegno ad essere concreti. Lo sono anche quando si addossano l’incombenza del rinnovamento della politica e delle istituzioni. Anche quando si dichiarano preoccupati per i “problemi della gente”, che la crisi aggrava. Perché purtroppo tutto finisce qui. In chiacchiere. In una intollerabile scissione tra parole e fatti.

Stando così le cose  non si fa fatica a capire perché le ruberie dei Lusi, dei Fiorito, del  dipietrista Nanni, e di tanti altri, l’esibizione di stili di vita moralmente discutibili alla Formigoni, assieme a tante vicende di corruzione, di dissipazione di risorse pubbliche, oppure la scoperta persino di un assessore regionale eletto con i voti della ‘ndrangheta, debitamente acquistati, abbiano fatto deflagrare il disamore ed il discredito nei confronti della politica e dei partiti. La situazione è arrivata ad un punto tale che il degrado sembra ormai diventato incomprimibile. Cito, solo per fare qualche esempio, il caso clamoroso di Tributi Italia SpA. Ditta privata incaricata di incassare i tributi che invece di consegnarli ai comuni li trafugava. Così i cittadini hanno finito per essere derubati due volte: da tasse particolarmente esose e dal fatto che non essendo versate non potevano nemmeno servire a finanziare i servizi. Cito il compenso esagerato che politici e dirigenti pubblici e privati si sono immoralmente attribuiti e che costituisce esso stesso fattore di corruzione. Perché spinge i beneficiati ad agire a vantaggio del loro privilegio ed a scapito del bene pubblico. Cito il caso di consiglieri regionali, Minetti compresa, che guadagnano più del segretario dell’Onu. Cito la lettera di Lavitola a Berlusconi, che riassume il campionario di tutti i comportamenti corruttivi. Cito  il fatto che secondo stime non contraddette la corruzione in Italia si mangia circa 60 miliardi all’anno. Deprimendo l’economia, togliendo merito, abolendo la concorrenzialità, ostacolando l’innovazione, a tutto vantaggio dei distributori e dei percettori di mazzette.

Aggiungo che aver abrogato il reato di falso in bilancio ed aver ridotto i tempi di prescrizione per i reati contro il patrimonio, sono tutti fattori che facilitano (anziché contrastare) la corruzione. Mi rattrista quindi dover prendere atto che la legge anticorruzione che l’Europa ci sollecitava da 13 anni abbia lasciato in gran parte irrisolti questi problemi. Ma ancor di più mi rattrista il fatto (credo da consegnarsi all’aneddotica del crollo etico) che il Parlamento debba votare una legge apposita per impedire che i portaborse dei deputati vengano pagati in nero. Oppure che si pensi di conferire una delega al governo per stabilire i casi di ineleggibilità. Tanto più tenuto conto che l’ipotesi in discussione, mentre sembrerebbe introdurre l’ineleggibilità dei condannati, si limita al contrario a vietare la candidatura solo a chi è stato condannato in via definitiva a più di due anni di carcere. Cosa grave. Sia perché l’eletto, per onorare l’etimologia della sua condizione, dovrebbe essere invece del tutto pulito. Ma soprattutto perché, come sanno bene gli addetti ai lavori, chiedendo il patteggiamento nei reati contro il patrimonio pubblico la condanna non supera l’anno ed otto mesi. Il che fa pensare agli onesti che, al dunque, l’ineleggibilità si risolva in una finzione, in un inganno.

La cosa è tanto più insensata ed irragionevole considerato che non c’è alcun bisogno di leggi per stabilire i criteri di ineleggibilità. Basterebbe infatti che ogni partito introducesse (molto semplicemente e molto rapidamente) nel rispettivo statuto una norma per stabilire l’incandidabilità nelle proprie liste di quanti sono inquisiti o condannati per reati di corruzione, di peculato, di malversazione, di danno erariale. Mi pare già di sentire l’obiezione. Ma come si fa se uno o più partiti, non dovessero uniformarsi? Ovviamente gli altri avrebbero tutto il diritto di attaccarli ed incalzarli in campagna elettorale come: correi, conniventi, di ladri, corrotti, pregiudicati. E questo dovrebbe essere un fattore dissuasivo più che sufficiente.

Per concludere. Quando ci sono nodi difficili da districare, i partiti, la politica, possono avere la capacità e la forza per cercare di scioglierli. Ma non possono fingere, se non al prezzo di aggravare ulteriormente il loro discredito, che si possa risolvere un problema inventandone un altro. In sostanza quindi il disamore verso la politica che c’è, che è in crescita, che non è una invenzione, può essere contrastato in un solo modo: restituendo alla politica dignità, concretezza e credibilità. Esigenza purtroppo contraddetta da quanti pensano invece che basti contrabbandare una trovata come l’election day. Di solito si usa dire che al futuro si deve sempre guardare con ottimismo. Disgraziatamente sortite come queste inducono a pensare che molti dei partiti della seconda Repubblica sfuggano ormai del tutto a questa regola.

 

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