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Produttività? Modello PARTECIPATIVO!

di Flavio Pellis
Nel suo ultimo articolo (note ISRIL n.36) il prof. Giuseppe Bianchi ha affrontato il tema della produttività, evidenziando come bisogna ragionare di “produttività economica misurata in termini di valore aggiunto pro-capite” anziché di “produttività fisica, misurata in termini di output per unità lavorativa”; cioè “stimolare la qualità innovativa dei prodotti e dei processi che non le quantità, aprendo una riflessione sulle nuove organizzazioni del lavoro e sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione ed ai benefici di una strategia basata sul miglioramento continuo”; quindi, più che “le quantità prodotte vale il valore economico della produzione ottenuto attraverso la creazione di nuovi prodotti, nuovi processi, nuove istituzioni di partecipazione, nuove competenze”, concludendo che “la scarsa competitività delle imprese italiane è soprattutto imputabile ad una loro limitata propensione ad innovare, che è invece la carta vincente dei nostri campioni nazionali”.
Ne deriva la domanda sul come “rimettere in moto il motore della produttività creando le necessarie condizioni di consenso basate sulla reciprocità degli interessi”.


Ebbene, su questo tema, ho già avuto modo tempo fa (PARTECIPAZIONE: Strategia negoziale e risorsa per la competitività) di sostenere la seguente tesi (verificata in concreto fin dai primi anni ’90), che  ripropongo come contributo ad un dibattito non ideologico e libero da pregiudizi:
La premessa da cui partire è che sia dichiarata in modo esplicito la condivisione degli obiettivi dell’impresa, intesi come mantenimento e sviluppo della competitività.
La dimostrazione di questa scelta sta nel suo contrario: se l’impresa non è competitiva deperisce, e chi ne paga le conseguenze maggiori sono i lavoratori (cassa integrazione, licenziamenti, chiusura della fabbrica,
etc.), cioè cose viste tante volte, sopratutto in questi ultimi tempi.
Questo non significa però, acquiescenza ed accettazione in modo subalterno di qualsiasi decisione dell’impresa; in una parola, partecipazione non è sinonimo di subalternità. Perché restano intatte le diverse
rappresentanze degli interessi: l’impresa che tende a realizzare il profitto, l’utile da dividere tra gli azionisti; i lavoratori e le loro rappresentanze che tendono a migliorare le condizioni di lavoro e di vita ed allargare
l’occupazione.
Questa rappresentanza di interessi divergenti, però, sta insieme solo se l’impresa è competitiva, e può trovare un punto di equilibrio solo in un quadro accettato e condiviso di regole del gioco; quindi partendo da una scelta comune e condivisa (la solidità competitiva dell’impresa da coniugare assieme alla valorizzazione del lavoro e dell’occupazione), il punto è di trovare un sistema di relazioni industriali che permetta di conciliare le diverse rappresentanze degli interessi.
La condizione è che entrambi (lavoratori ed impresa) accettino esplicitamente un sistema di RELAZIONI INDUSTRIALI PARTECIPATIVE fondato sulla RECIPROCITÀ DEI RAPPORTI (in termini di riconoscimento dei rispettivi ruoli, pari dignità, correttezza di relazioni, informazioni preventive, assunzioni di responsabilità, etc., ed anche regolazione delle eventuali forme di dissenso).
Queste nuove relazioni industriali partecipative, però, non nascono spontaneamente e non scaturiscono dalla semplice buona volontà.
Si tratta di fare entrambi (impresa e lavoratori) un salto culturale, cioè acquisire la consapevolezza di valori e ragioni comuni e condivisi che rendono reciprocamente conveniente definire obiettivi di efficacia ed efficienza perseguibili, ed al raggiungimento degli stessi, redistribuirne i benefici.
E’ bene sapere che molte sono le resistenze, su entrambi i versanti:
 Dal lato delle imprese, sono ancora in molti che pensano che il lavoro sia una componente residuale rispetto a quella tecnologica e quindi siano più adatti modelli gerarchici e metodi gestionali autoritari, anche per evitare confronti con le rappresentanze dei lavoratori, spesso considerate un intralcio.
In più c’è chi ritiene che il problema del lavoro sia unicamente il suo costo, senza rendersi conto che ci sarà sempre un paese emergente in grado di offrire manodopera ad un costo sempre minore (oggi India
e Cina, domani ... ?). Il terreno competitivo del futuro sarà sempre più la conoscenza (questo è il destino dell’Italia e di tutti i Paesi industrializzati), cioè produzioni di beni e servizi ad alto valore aggiunto, dove i contenuti di tecnologia, know-how, di qualità, siano sempre in evoluzione e non replicabili altrove ed in grado di garantire alto profitto, alto reddito ed alta occupazione.
 Dall’altro lato, quello sindacale, c’è ancora chi ha in mente l’utopia rivoluzionaria (irrealizzabile e storicamente sconfitta) del sindacato antagonista che deve a prescindere contrapporsi al capitalismo.
Questa scelta è un inganno, perché rappresenta una apparente finta immagine “dura e pura” che rifiuta il confronto con l’impresa, mentre nasconde la fuga dalle responsabilità e lascia alla fine i lavoratori indifesi di fronte alle decisioni unilaterali che l’impresa comunque assume.
E’ anche una scelta sbagliata, perchè soprattutto in un’economia globalizzata, il capitalismo se ne va da altre parti, laddove esistono condizioni vantaggiose (e tra queste ci sono anche relazioni industriali non
antagoniste).
Quando si parla di partecipazione e di come realizzarla, significa conoscere l’impresa nei suoi processi interni e nei suoi rapporti esterni; significa sapere come cambia il lavoro, al suo interno e come viene usato e realizzato. L’impresa moderna, pur con la sua alta automazione, non ha espulso il lavoro umano dai processi produttivi, come tutto lasciava pensare, ma si è riprogettata su basi tecnologiche ed organizzative nuove, per ottimizzare qualità dei prodotti e l’efficienza dei processi.
Proprio per questo l’impresa moderna non può vivere di sola tecnologia e deve valorizzare il lavoro umano intelligente e creativo, in dosi sempre più consistenti per il proprio successo. Il lavoro richiesto è sempre più qualificato, responsabilizzato e specialistico e resta l’elemento fondamentale nel rapporto impresa – mercato. Il fattore umano è la risorsa strategica e sempre meno appendice delle macchine, come lo ha definito e voluto il taylorismo.
Le Relazioni Industriali Partecipative si costruiscono a partire dal processo lavorativo, dal come è organizzata e gestita la fabbrica in tema di professionalità, organizzazione del lavoro, organici, utilizzo  impianti, orari, ambiente, etc.
Raggiungere accordi sugli obiettivi di produttività e concordare comportamenti consensuali, è la vera base concreta su cui poggiare la scelta partecipativa. Il passaggio obbligato di questi accordi è dato dalla conoscenza e discussione dei piani di produttività dell’impresa, oltre all’esperto, di comune fiducia, che si fa garante delle soluzioni tecniche e di misurazione della produttività, la cui trasparenza costituisce la  migliore garanzia di tutela degli interessi coinvolti.
In sintesi, la partecipazione si realizza attraverso accordi a livello decentrato, impernianti sulla implementazione di piani produttivi e sulla distribuzione dei benefici conseguenti tra lavoro e capitale in funzione del  contributo dato da ciascuno.
In un mercato globale, planetario, la velocità dei cambiamenti è tale che sempre più viene richiesta, da parte dell’impresa, professionalità, responsabilità, adattabilità, flessibilità; quindi, “consenso ai fini  d’impresa”. Si tratta di sapere se tale consenso viene passivamente dato o coercitivamente estorto, oppure se può essere la leva per nuove politiche, anche nella gestione del personale. Se da un lato va formato l’operaio partecipativo, dall’altro, anche il “capo gerarchico” necessita di una riconversione culturale per diventare un capo partecipativo, quindi riconosciuto tale per le sue competenze, professionalità, capacità innovative, funzioni di guida e di leader del gruppo, etc.
Nei casi in cui questo percorso è stato implementato i risultati si sono visti; esemplare è il caso di una azienda del gruppo Asea-Brown-Boveri, dove, nella fase di passaggio a produzioni automatizzate, si è  contrattata la trasformazione del sistema retributivo in un sistema premiante collettivo basato sulla efficienza e qualità (l’esperto comune era il Prof. Luigi Prosperetti); accompagnato da investimenti non solo tecnologici, ma anche formativi, sia sul versante della qualificazione professionale che su quello più propriamente “cultural-partecipativo” e che ha coinvolto l’insieme dello stabilimento (suddiviso per aree di responsabilità professionale).
La strategia partecipativa, basata sul consenso, non elimina di certo il conflitto sociale, ma cerca di prevenirlo e, nel caso ciò non si verifichi, lo gestisce riducendone i costi distruttivi.
La scelta partecipativa è, dal punto di vista sindacale, contrapposta sia al sindacato subordinato, sia al sindacato antagonista; rappresenta, invece, l’espressione del sindacato autonomo soggetto sociale, in grado di assumersi e far assumere responsabilità, che esercita il suo ruolo contrattuale in una logica di crescita dell’impresa, che porti miglioramenti non solo per i lavoratori e l’occupazione, ma anche vantaggi per la competitività.
( Flavio Pellis – segretario generale AReS – Associazione Riformismo e Solidarietà)

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