3/01/13 - Pierre Carniti
Quando un nuovo gruppo si presenta sul mercato politico, in un sistema tendenzialmente frantumato e frastagliato come quello italiano, le domande che la gente comune (oppure, secondo la formula più di moda, “la società civile”) si pone sono: con chi sta e cosa vuole fare? Sono appunto queste le domande che vengono rivolte al professor Monti, a seguito del suo tentativo di riorganizzare un “centro” da tempo privo di identità e di ruolo. Etichetta quella centrista che, per altro, l’ex premier dichiara di non gradire. Sarà magari per questa o per altre ragioni, rimaste misteriose, che fin’ora le domande sono rimaste eluse. E probabilmente continueranno ad esserlo nei due mesi scarsi che ci separano dalle elezioni. E’ possibile che decidendo questa condotta Monti si sia ispirato a Dante, il quale fa dire a Virgilio: “che la dimanda onesta / si de’ seguir con l’opera tacendo”. Oppure che ritenga invece più conveniente evitare, per calcolo elettorale, quesiti giudicati scomodi. Sia come sia, le due questioni sono sul tavolo ed è opportuno parlarne. Provo quindi a dire la mia.
Non entro nel merito del primo aspetto della disputa perché immagino che, per la gioia dei media (sempre attratti da alleanze ed antagonismi, intese e disaccordi), costituirà una costante nella polemica tra contendenti impegnati nella competizione elettorale. Mi limito quindi a poche osservazioni marginali. La prima cosa che salta agli occhi è l’esistenza di una contraddizione. Quella cioè di una forza politica che si ritiene rappresentativa del “nuovismo”; al punto che una sua componente si assegna il ruolo di avanguardia: “Verso la Terza Repubblica”, ma non disdegna affatto un ritorno alla “Prima”. Tant’è vero che ha deciso di rinviare a dopo le elezioni la scelta delle alleanze. Come avveniva appunto nella “Prima Repubblica”. Quando era in auge la gloriosa teoria dei “due forni”.
Colpiscono poi talune attrazioni per i preconcetti. Ad iniziare da quello relativo al definitivo accantonamento (o rottamazione!) di “vecchie categorie ed anacronistiche distinzioni come Destra e Sinistra”. Non c’è dubbio, per dirla con Michele Salvati, che in Italia, a seguito di una modernizzazione tardiva ed incompleta, “l’onestà fiscale è una virtù meno comune che altrove e la corruzione un vizio più diffuso”, la criminalità organizzata più estesa, l’efficienza amministrativa minore, rispetto al resto dell’Europa. E l’elenco naturalmente potrebbe continuare. Si può perciò tranquillamente convenire che queste faccende hanno poco o nulla a che fare con il tradizionale riferimento alla Destra ed alla Sinistra. Considerazioni sicuramente fondate. Ma ci sono tante altre questioni (su alcune di esse tornerò più avanti) a cominciare dalle diseguaglianze (di opportunità, di diritti, di reddito, di potere) che si sono aggravate. Confermando così che la necessità di una scelta tra una concezione di Destra ed una di Sinistra non è affatto venuta meno. Se invece ad alcuni (compreso l’ex premier) fosse semplicemente arrivata a noia la terminologia abituale, si potrebbe cercare di promuovere una qualche innovazione lessicale. Ad esempio, si potrebbe ipotizzare di sostituire Destra e Sinistra, con Sopra e Sotto. Ben sapendo che coloro che stanno Sopra nella scala sociale tendono a mantenere “l’ordine” sociale ed economico delle cose esistenti. Mentre coloro che stanno Sotto vorrebbero invece cambiarlo.
Legato a questa dialettica, tanto appassionante quanto inconsistente, c’è il tormentone per stabilire dove si anniderebbero i “conservatori”. Per il professor Monti e diversi suoi devoti i “conservatori” si raccoglierebbero, ovviamente, tra i critici di certe misure adottate dal governo dimissionario, o quelli di alcuni dei contenuti della cosiddetta Agenda. Giudizi singolari. Dei quali, suppongo, Monti sarà però del tutto convinto. Del resto, come diceva Voltaire; “Si dice una sciocchezza ed a furia di ripeterla si finisce per essere persuasi”. Per parte mia vorrei limitarmi a notare che la querelle è soltanto inutilmente fastidiosa. Per la buona ragione che tutti abbiamo qualcosa da “conservare”. Naturalmente continuo a pensare che tra il “conservare” la libertà e dalla democrazia, che molti hanno contribuito a conquistare a prezzo di tanto dolore e tanto sangue, ed il “conservare” privilegi ed ingiustizie ci sia una insuperabile differenza, che Monti farebbe bene a non ignorare.
Nel frattempo, tra l’ex premier che considera il nuovo movimento alternativo alla destra estrema (perché responsabile della caduta del suo governo; perché il Pdl ha il matto in casa e non riesce a legarlo; perché esprime posizioni populiste, avventurose ed antieuropee) ed uno dei boys di Montezemolo (il coordinatore di Italia Futura: Calenda) che proclama il nuovo raggruppamento “alternativo ai democratici e che le alleanze si potranno fare solo sulla base dell’Agenda Monti” (intervista al Corriere della Sera del 2, gennaio, 2013), è difficile capire dove e con chi e per fare cosa si collochi la aggregazione politica che è ai blocchi di partenza. Intendiamoci: la prima delle due affermazioni di Calenda non deve sorprendere. Poiché il movimento montiano è rappresentativo della destra liberale, si capisce bene che si consideri in competizione con la sinistra democratica. Come avviene, del resto, in tutta Europa. La seconda è invece una incredibile esibizione di presunzione e di arroganza. Fortunatamente c’è da pensare: tanto sgradevole nella formulazione, quanto velleitaria nella sostanza.
In ogni caso, la protervia e l’entusiasmo dei neofiti, secondo i quali “le alleanze si potranno fare dopo il voto e solo a partire dall’Agenda Monti”, non dovrebbero avere alcun fondamento. E non solo per ragioni politiche. Ma per il motivo assai più banale che certi punti dell’Agenda sono semplici auspici, altri sono fondamentalmente declamatori, un certo numero sono infine fondati sulla formula magica delle “riforme” che devono essere fatte “a costo zero”, prendendo “decisioni realistiche”. Il che (più o meno) significa che i costi dell’aggiustamento vanno posti a carico di chi sta nella parte inferiore della scala sociale. Perché sono di più ed inoltre non dispongono degli stessi mezzi di pressione che hanno invece quanti stanno nella parte superiore. Naturalmente questo criterio non viene mai enunciato in termini così brutali e così cinici. Però, malgrado non sia disdegnato un linguaggio più aulico e compassionevole, la sostanza rimane questa.
Per altro, il proposito di una sostanziale svalutazione del lavoro e del sociale non è nemmeno sorretto da convincenti dati di fatto. Al punto che agli autori “dell’Agenda” bisognerebbe chiedere in via preliminare la documentazione su cui si fondano alcune indimostrate congetture. “Il faut chiffrer le programme” direbbero i francesi. Purtroppo però il programma non è “cifrato”. Il che contribuisce implicitamente a chiarire l’ideologia che lo sorregge. In particolare per quanto riguarda gli aspetti relativi al lavoro ed alla politica economica. Che sono assolutamente cruciali.
Perciò, se si vuole invece discutere concretamente di lavoro, il mio personale consiglio è che sarebbe utile partire dai grafici di Nicola Salerno (un economista del Cerm), realizzati utilizzando la serie Istat degli ultimi vent’anni e dall’analisi con la quale Carlo Clericetti li interpreta stabilendo anche una correlazione temporale tra dinamiche occupazionali (suddivisa per genere ed età) le cosiddette riforme del “mercato del lavoro” e le “riforme previdenziali”. Per chi fosse interessato a documentarsi, i grafici di Salerno e lo studio di Clericetti (ai quali rinvio) possono essere agevolmente scaricati dal sito di Eguaglianza & Libertà. Per parte mia mi limito quindi solo ad un paio di considerazioni. L’ossessivo perseguimento di una crescente flessibilità del lavoro ha avuto come effetto di determinare soprattutto una maggiore precarietà ed un conseguente peggioramento nella distribuzione dei redditi. I dati sono lì a dimostrarlo e le chiacchiere non servono a nulla. Ovviamente non è da escludere che, quanto meno all’inizio, alcuni “addetti ai lavori” abbiano ritenuto la flessibilità, un valore assoluto. Da perseguire come un bene in sé. Ispirandosi, al riguardo, al modello americano. Dove, come noto, la flessibilità del lavoro dipendente è totale. Essendo possibile il licenziamento “ad nutum”. Cioè “al cenno”. Ed, in buona fede, essi potrebbero essersi convinti che proprio questo elemento costituisse un fattore di maggiore mobilità della società americana.
Tuttavia, i dati sulla mobilità sociale americana, comparati con altri paesi europei, contraddicono questa illusione. In effetti essi costituiscono una tremenda delusione per quanti sono rimasti aggrappati a quella che una volta poteva, forse, costituire l’iconografia dell’American Dream. A questo proposito, Federico Rampini segnala che: “non sono solo i movimenti radicali come Occupy Wall Street, o gli studiosi progressisti a denunciare il regresso della mobilità sociale verso l’alto. Perfino “The National Review”, una delle riviste più autorevoli della destra, ammette che un buon numero di paesi europei ci hanno superato”. Sicché, e per farla breve: considerato che il dilagare della precarietà non fa aumentare il lavoro, peggiora la distribuzione del reddito, non è funzionale alla mobilità sociale, si dovrebbe finalmente ritenere arrivato il momento di accantonare la propaganda per incominciare a discutere seriamente di concrete politiche del lavoro.
Per quanto riguarda invece il campo della politica previdenziale, la cosa curiosa da osservare è che si è seguito una linea opposta a quella del lavoro. Si è infatti assurdamente optato per la rigidità. Assurdamente in quanto, come è noto, uno dei principi più importanti delle riforme Amato e Dini era che, passando dal sistema a ripartizione a quello contributivo, ognuno avrebbe potuto andare in pensione quando voleva. Sapendo, naturalmente, che il suo assegno sarebbe stato determinato da un coefficiente applicato all’insieme dei contributi versati. Quindi la sua pensione sarebbe stata tanto più bassa quanto minore fosse stata l’anzianità di lavoro e l’età di pensionamento. La spesa per il sistema previdenziale sarebbe risultata comunque in equilibrio. Perché sia stata bloccata questa soluzione, assolutamente razionale e che avrebbe potuto anche aprire la strada ad una maggiore occupazione giovanile, è difficile da capire. Una possibile spiegazione è che, sul piano politico, il governo Berlusconi (in questo come in altri campi) abbia ritenuto che le “riforme” fossero l’equivalente della “confusione”. Ed inoltre che abbia voluto compiacere la Ragioneria generale. Secondo la quale applicare il principio dell’età pensionabile differenziata, con assegni rapportati ai contributi versati, avrebbe reso aleatorie (chissà mai perché?) le previsioni a lungo termine. Se l’indiscrezione sulle posizioni della Ragioneria fosse avvalorata si avrebbe conferma dell’opinione di quanti ritengono che la burocrazia sia, di fatto, il “campo di attività nel quale il lavoro inutile tende sempre a rimpiazzare il lavoro utile”.
L’altra grande questione sulla quale vengono espresse posizioni controverse è quella dello stato di salute dell’economia. Da quattro anni in costante peggioramento e gli esorcismi non sono purtroppo affatto serviti a cambiare la situazione. In proposito vale la pena di ricordare che il contrasto sulle efficacia e congruità delle politiche economiche ha alle spalle anche un lungo conflitto culturale ed accademico. In proposito, basterà rammentare che, partendo dalla sua rivoluzionaria teoria fondata sulla domanda aggregata e sul moltiplicatore (con cui il mondo è riuscito a fronteggiare la grande crisi del ’29 e la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale), Keynes si rivolgeva ai suoi critici sostenendo che “è un grossolano errore credere che ci sia da scegliere tra i progetti per aumentare l’occupazione e quelli per riportare in equilibrio il Bilancio, cioè che bisogna avanzare adagio e con cautela con i primi per non compromettere i secondi. Anzi, è il contrario. Non v’è alcuna possibilità di riportare in pareggio il Bilancio se non aumentando il reddito nazionale, che è più o meno sinonimo di aumento dell’occupazione”. In sostanza Keynes riteneva che il reddito nazionale equivalesse alla somma dei redditi dei singoli lavoratori occupati. Sembrano cose scritte in riferimento ai problemi attuali. Ed invece sono ricette note da oltre mezzo secolo. Improvvidamente sostituite da cure “liberiste” disastrose, che hanno solo contribuito ad aggravare la crisi.
Resta il fatto che, per oltre quattro decenni, la rivoluzione Keynesiana e la teoria su cui si fondava hanno avuto un peso preponderante nella politica economica dei paesi democratici. Poi è subentrata la controrivoluzione di Hayek che, con i suoi entusiasti epigoni (Fridman, Goldwater, Thatcher, Regan) privilegiava invece il liberismo. Vale a dire la teoria dell’offerta, accompagnata da una complementare “cura dimagrante” per lo Stato. Influenzato da questa contrapposizione, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, anche il dibattito tra gli economisti accademici tornava a mettere in luce una profonda differenza rioccupando le trincee del vecchio contrasto Keynes-Hayek. In una erano dislocati gli “economisti d’acqua dolce”. Chiamati così perché le loro università erano prevalentemente raccolte nella zona dei Grandi Laghi. Dall’atro gli “economisti di acqua salata”. Perché appartenenti agli atenei della costa atlantica e pacifica. Schematizzando si può dire che gli economisti di acqua dolce vedevano nell’inflazione (e quindi nel debito e nel pareggio di bilancio) la peggior iattura per una paese. Proprio come Hayek. Gli economisti di acqua salata, seguendo Keynes, ritenevano, al contrario, che la cosa più preoccupante fosse la recessione e la disoccupazione.
Il gruppo dei laghi credeva che occorresse leggere l’economia come un organismo guidato dalle decisioni razionali di coloro che partecipano al mercato. Gli altri erano invece convinti che l’economia, lasciata a sé stessa, non funzionasse bene per tutti. Ma solo per quelli che avevano i soldi e comunque che le recessioni fossero sintomi di un’economia in cattivo stato di salute. Che perciò andava curato. Con politiche pubbliche mirate a risolvere prioritariamente il problema della disoccupazione. Soprattutto nella parte bassa del ciclo. Come sappiamo, per trent’anni (tra il 78 ed il 2008) il liberismo l’ha fatta da padrone. Ed il costo dell’aggiustamento e della sua distribuzione ha prodotto vistosi danni economici e sociali. In ogni caso, per quanti dubbi potessero avere in privato gli esperti riguardo l’efficacia e l’equità delle politiche liberiste e delle forze di mercato, esse erano al dunque giudicate virtuose sia dalla maggioranza degli economisti e dai governi di destra, che moderati.
Poi è arrivato il 2008 ed essendo finiti tutti in un mare di guai, si sono dovute progressivamente riscoprire le idee keynesiane. Un convinto keynesiano, come il premio Nobel Paul Krugman, ha scritto: “Temo che ci troviamo ai primi stadi di una terza depressione. Nel mondo…i governi sono ossessionati dall’inflazione (e dal pareggio di Bilancio) quando invece la vera minaccia è la deflazione. Predicano la necessità di tirare la cinghia quando il vero problema è la spesa inadeguata”.
Leggendo queste ed altre analoghe considerazioni, che caratterizzano il dibattito di autorevolissimi economisti in Europa e nel resto del mondo, non si può che restare sconcertati quando Monti ed i suoi adepti sostengono che, tra l’altro, dovrà essere accertata la compatibilità di Sel (una delle componenti della coalizione di centro-sinistra) con i propositi di politica economica contenuti nell’Agenda. I quali, per altro, appaiono indeterminati, vaghi, inadeguati e soprattutto di tendenziale deprezzamento del lavoro. Lo sconcerto poi è tanto maggiore in quanto, valutati i problemi e l’insufficienza (per tacere dei gravi errori) delle soluzioni fin’ora praticate come di buona parte di quelle prospettate forse si dovrebbe, al contrario, stabilire innanzi tutto l’idoneità dell’Agenda ad offrire risposte efficaci e convincenti ai problemi economici e sociali che assillano gli italiani.