di Flavio Pellis – Segretario Generale AReS
Siamo in un passaggio cruciale della storia italica; possiamo continuare galleggiando oppure decidere.
Abbiamo sostenuto il governo Monti per togliere l’Italia dal baratro, abbiamo fatto bene, ma è stata una operazione prevalentemente difensiva. Abbiamo limitato le perdite, ma chi ha pagato il prezzo maggiore sono stati i ceti medi, il popolo di lavoratori e pensionati, i piccoli imprenditori e gli artigiani. Non le corporazioni, le rendite e quel 10% di veri ricchi che detengono quasi il 50% della ricchezza nazionale. Inoltre, molti ritengono ancora che l’adesione acritica alla deregulation liberista sia ancora il requisito indispensabile per governare, confidando che lo sviluppo segua ... Ma questa strada si è dimostrata fallace oltre che ingiusta.
In questa situazione dunque, chi andrà al governo dovrà, al contrario, fare i conti, contestualmente, con le grandi emergenze nazionali: quella finanziaria, quella produttiva e quella sociale.
E mentre Monti non scioglie in nodo della sua collocazione, restando in bilico tra liberismo e riformismo, e Berlusconi rilancia a piene mani il peggio del suo populismo, con la "Carta d’Intenti dei democratici e progressisti” si prova a rispondere al quesito del buon governo in tempo di crisi, coniugando il modello di socialdemocrazia "nordica" col cattolicesimo sociale, entrambi trascurati. Lo scopo è proporre una correzione, nel segno dell’equità e del lavoro, della rigidità contabile. Dunque, né radicalismo "sinistrorso", minoritario e controproducente, né acquiescenza alla traduzione liberista del rigorismo dei conti.
Al contempo, la "novità", il manifesto di Monti “Cambiare l’Italia, riformare l’Europa. un’agenda per un impegno comune” (che pure riscopre, dopo un anno di rigorismo, l'economia sociale di mercato, sostanzialmente accantonata nei suoi 13 mesi di governo), appare più come uno sforzo volontaristico di ... modernità, ma politicamente alleato con la rete di corporazioni che allignano negli ordini, nei servizi, nella burocrazia, risultato di una stratificazione ultradecennale di una società corporativa e nemica del mercato concorrenziale.
Ciò che bisogna fare invece, è costruire un’Italia diversa, un paese solidale, che garantisca l’eguaglianza delle opportunità e prefiguri una società più giusta, che riconosca il merito ed aiuti chi ha bisogno. Avere una idea di futuro, un progetto di società, un “modello sociale” di riferimento, questo sì, moderno ed adattato ai tempi nuovi, non significa solo prospettare un sistema diverso, più solidaristico, di governance dell’economia, non è solo un’ulteriore forma di riformismo, è un “nuovo approccio culturale”, una filosofia, una nuova idea (per non dire ideologia, in quanto alternativa all’ideologia del “dio denaro”).
Le primarie del centrosinistra per il candidato premier ci hanno consegnato (oltre ad una scelta eticamente riconoscibile, in cui non importa l’età e nemmeno il carisma, quanto la forte convinzione) soprattutto una straordinaria partecipazione, confermata dalle primarie per i candidati al Parlamento, per rimettere in moto un profondo ricambio che sia basato non sull’anagrafe o la fedeltà al capo, bensì su onestà intellettuale e rettitudine, impegno e merito, entusiasmo e talento, competenze e valorizzazione delle “intelligenze”; per una selezione non clientelare, non familiare, non ereditaria; contribuendo a costruire un gruppo dirigente e leadership plurali e collegiali (non “un uomo solo al comando”, che richiama l’autoritarismo in salsa moderna), che rappresenti questo cambiamento strategico e culturale, prima che sociale, economico e politico; per risollevare il paese, che non merita il futuro verso cui i tanti ... tordi-ingordi ci volevano predestinare, contando sulla capacità soporifera delle illusioni propagandate e sull’apatia non reattiva della maggioranza degli italiani.
Perciò il prossimo governo dovrà fare propria e sfruttare la massima di Machiavelli sul "FARE IL DA FARSI SUBITO".
Quindi, ad esempio, riformare il diritto amministrativo (riprendendo un’idea di Pierre Carniti) ed adottare le stesse norme di diritto civile e diritto del lavoro anche nella pubblica amministrazione; far rispondere i dirigenti pubblici sul grado di efficienza del servizio che dirigono, anziché al politico che li ha designati per mantenere i privilegi; utilizzare misuratori di qualità ed efficacia centrati sulla “soddisfazione del cliente” (cioè i cittadini), piuttosto che la rigida osservanza della burocrazia, che va comunque semplificata, etc., etc.
Inoltre vanno smantellate le corporazioni, abbattendo le rendite di posizioni impermeabili, che operano prevalentemente nel settore dei servizi e delle professioni, utilizzando licenze pubbliche o norme di riconoscimento, facendo cartello per ottenere un privilegio, una licenza, una “patente”, organizzate con barriere di ingresso e vantaggi, per essere immuni dalla concorrenza, a tutela dei propri interessi contro quelli degli altri (meno taxi in circolazione più introiti per chi è già dentro, meno farmacie più lucro per le farmacie esistenti, meno notai ... , etc.).
Così come vanno combattute le imprese che fondano le loro fortune sull’evasione, il falso in bilancio, la corruzione per truccare l’assegnazione degli appalti pubblici, il dispregio delle più elementari norme di tutela del lavoro e sicurezza, etc.; parimenti andrebbero stimolati investimenti in innovazione e ricerca, anziché chi punta al facile guadagno immediato in mercati a basso contenuto tecnologico (con bassa conoscenza e saperi nonché bassi salari).
Infine, ma niente affatto ultima come priorità, affrontare la questione delle DISEGUAGLIANZE, nella DISTRIBUZIONE dei REDDITI e nella RAREFAZIONE del LAVORO STABILE.
In sostanza si tratta di coniugare mercato e democrazia, sviluppo economico ed eguaglianza (cioè l’essenza profonda del «modello sociale europeo»).
Un eccesso di diseguaglianze prolungato nel tempo crea inefficienza e disgregazione sociale; quindi una maggiore eguaglianza non è soltanto un fattore decisivo della coesione sociale e di tenuta del tessuto democratico, ma assume valore economico, perché rafforza la domanda interna, ed è l'unico modo per ricreare le condizioni della crescita (vedi i 4 paesi scandinavi, Olanda e Germania; che sono i paesi a minor diseguaglianza, a più alto Pil pro capite e che hanno retto meglio degli altri nella crisi).
Ma è altrettanto necessario far riemergere la parte migliore e virtuosa di ognuno di noi: un senso civico come coesione di fondo, che tenga unito il paese nelle sue parti e nelle sue diversità, nel rispetto di regole e legalità, in una dimensione equa e solidale, contrapposta all’arricchimento individuale con qualsiasi mezzo a scapito della collettività, che è il fondamento teorico del neoliberismo.
Allora, possiamo provarci sul serio? Possiamo riuscirci? È difficile ma non impossibile, come dimostrato dall’esperienza nord-europea quale esempio emblematico di una solida testimonianza alternativa agli egoismi, alle corporazioni, alle clientele, al familismo, ai ... poteri forti; ma, come ricorda Tucidide: “nessuno è mai stato così forte da essere sicuro di essere sempre il più forte”; perciò ritengo che possiamo farcela.
Perciò, nonostante si possa fare una sola “rivoluzione” nella vita ( ed io, la mia l'ho già fatta a suo tempo, in anni di passione sociale e politica, compreso i tempi difficili ed “eroici” in fabbrica prima dello Statuto dei lavoratori), sono pronto a gettare il cuore oltre l’ostacolo ancora una volta, perché ne vale la pena, perché essere seri e responsabili non significa affatto essere arrendevoli, ma vuol dire tener fede ad una battaglia ideale e politica, per costruire una “visione del futuro”, che possa cambiare l’Italia (e indirettamente anche l’Europa), per offrire una “bussola” e poter dare prospettive migliori di benessere alle prossime generazioni.
I tempi sono grami, ma la Storia è tutt'altro che finita.