di Pierre Carniti
Nel discorso di presentazione del suo governo alle Camere, Enrico Letta ci ha chiesto di distinguere tra politica e politiche. Perché la politica divide, mentre le politiche, intese come strumenti di interventi concreti ci dovrebbero unire. In realtà questo schema interpretativo risulta alquanto arbitrario. Secondo la letteratura politologica moderna la politica va infatti intesa come l’ordine collettivo, razionalmente costituito per contratto, secondo giustizia e tale da garantire i diritti dei singoli. Interpretata in questo suo significato normativo la politica in pratica coincide quindi con la “democrazia” e non è del tutto disgiunta dall’etica. Stando così le cose, se si escludono minoranze estreme, tendenzialmente sovversive od antisistema, bisogna dire che intorno a questo significato della politica c’è larghissima condivisione.
(contributo dell'autore ad una pubblicazione della Fondazione Donati in occasione del 25° anniversario della morte di Zaccagnini)
E’ invece sulle politiche che si verificano le più dure antitesi, i più aspri contrasti. In effetti, come in tutti i paesi democratici anche da noi i partiti si dividono non sulla accezione della “politica”, ma sulle “politiche”. Cioè sui modi con cui affrontare i problemi e sulle soluzioni da adottare per cercare di risolverli. Del resto basta leggere le cronache quotidiane per rendersi conto che le divisioni e le discussioni più aspre si riscontrano sulle politiche fiscali, su quelle sociali, sulla scuola, sulla salute, sulla difesa del territorio, sul funzionamento della giustizia, sul conflitto di interessi. E così via. Naturalmente nei contrasti che si manifestano sulle politiche non c’è alcunché di sorprendente. Perché sono appunto lo strumento attraverso il quale si decide, tra l’altro, a chi far pagare i costi dell’aggiustamento economico e finanziario, anche per fronteggiare la crisi che ormai ci opprime da anni. Del resto non è un caso se, nella crisi, i poveri sono diventati più poveri ed i ricchi ancora più ricchi.
Assieme alle politiche, le ragioni di divisione e di contrasto si verificano pure quando sono chiamati in causa i principi, i valori diversi. Si pensi all’alternativa tra democrazia e dispotismo, tra libertà e repressione. Che per la generazione che ci ha preceduto ha comportato scelte coraggiose e drammatiche. In particolare nella lotta di Resistenza. Esemplare al riguardo la testimonianza di Zaccagnini. “Potevamo essere ribelli? Era lecita la rivolta? Era lecita quella particolare forma di guerra che era la guerra partigiana?” Si è chiesto, parlando di un periodo che lo ha visto profondamente coinvolto, e la sua risposta non lascia adito a dubbi. “Noi non potevamo agire né per vendetta, né per calcolo, né per odio, ma solo per giustizia e per amore. [….] Per amore di quella universale sofferenza del nostro popolo. Per cui dovevamo soffrire con chi soffriva, rischiare con chi rischiava, morire se necessario con chi moriva. Per amore di quel mondo nuovo che tutti sognavamo, a cui ognuno offriva tutto sé stesso perché portasse il segno della propria Fede e della propria Idea. Qualcosa di nuovo stava per nascere e non poteva non nascere da quell’immensa prova di sacrifici e di dolore. Dovevamo essere presenti perché un seme cristiano, un seme purissimo di giustizia vera, di libertà vera, d’amore fosse dischiuso in quel tormento di rinascita e germogliasse nel domani fecondo.”
Conquistata la libertà quel “seme cristiano”, indusse Zaccagnini e tanti altri, nel solco culturale di Dossetti, Lazzati, La Pira, ad impegnarsi attivamente per dare alla comunità politica organizzata in Stato un’ispirazione, un’anima e un programma di interventi, avendo come orizzonte la libertà, la giustizia ed il perseguimento di una maggiore eguaglianza tra gli uomini. Contrariamente a molti impegnati politicamente, anche provenienti dal mondo cattolico (si pensi all’andreottismo ed al doroteismo, assurti ben presto a categorie che, forse anche a motivo della durezza della temperie storica segnata dalla presenza invadente di blocchi economico-militari contrapposti, hanno in prevalenza caratterizzato l’avventura politico-cristiana in Italia nel dopoguerra) la componente cristiano progressista, seppure minoritaria, ha combattuto con determinazione la sua battaglia nella convinzione che lo Stato non può essere indifferente di fronte alle situazioni di diseguaglianza che ci sono e sono presenti nella società. Naturalmente essa era assolutamente consapevole che compito dello Stato non è quello di perseguire con durezza un’eguaglianza intesa come uniformità, come mediocre amalgama di posizioni indifferenziate, ma nello stesso tempo era assolutamente convinta che lo Stato non può nemmeno esimersi dall’impegno costante al perseguimento di una maggiore equità tra le situazioni personali e sociali, dei singoli e dei gruppi.
Un simile approccio ai problemi non può essere bollato con il termine “integralismo”, come tante volte invece hanno fatto i devoti della cultura liberista. I quali non hanno esitato ad accusare ripetutamente le maggiori personalità della sinistra cristiana (a cominciare da Dossetti, il suo esponente più rappresentativo) di rigidità impolitiche e persino di asprezze ideologiche. La verità è che i Dossetti, i Lazzati, i Zaccagnini, hanno sempre preso molto sul serio la Costituzione e non si sono mai stancati di riproporne continuamente l’attuazione ed il riferimento ai suoi principi fondamentali. Il loro obiettivo è sempre stato il conseguimento di una democrazia reale, sostanziale. Perciò non si potevano certo accontentare di una democrazia puramente nominalistica. In proposito la loro posizione è sempre stata molto esplicita, chiara e logica. L’assunto imprescindibile da cui partivano era che con la Costituzione si era inteso dar vita ad un ordinamento democratico, pluralista, personalista e comunitario, fondato sul lavoro ed ispirato all’eguaglianza ed alla pari dignità tra le persone. L’ulteriore aspetto, non a caso ripetutamente sottolineato, era che questo tipo di Stato, così ben caratterizzato nei suoi principi e valori, è un Repubblica.
Non è un casuale, del resto, che gli esponenti della sinistra-cristiana privilegiassero questo termine rispetto a quello più tradizionale di Stato. Con tale scelta essi intendevano infatti riferirsi ad un insieme ordinato di poteri pubblici e privato-sociali. Cioè ad un ambito nel quale sono chiamati ad agire sia gli ordinamenti statuali che quelli dei gruppi intermedi. In questa concezione è quindi la Repubblica (e non esclusivamente lo Stato) che assume su di sé dei compiti, dei fini da raggiungere. E per fare ciò utilizza le strutture funzionali descritte nella seconda parte della Costituzione. Appunto come “mezzi” giuridici ed istituzionali adeguati al perseguimento di quei fini. Bene delineati nella sua prima parte.
Malgrado “res pubblica semper reformanda est” non c’è dubbio che nell’impostazione costituzionale sussista una consequenzialità (almeno così l’hanno pensata ed intesa i costituenti) tra la parte seconda (ordinamento) e la parte prima (principi fondamentali), che vede nella seconda la dimensione strutturale e realizzativa dei fini della prima. E’ per questa ragione di fondo che uomini di straordinari integrità politica e morale, come Dossetti e Zaccagnini, Lazzati e La Pira, si sono sempre opposti ai tentativi di gravi alterazioni-manomissioni della parte strutturale, perché convinti che ciò finisse per degradare inevitabilmente anche i principi.
In effetti quando si scrive in un documento solenne come la Costituzione, nato dalla Resistenza e quindi dal sacrificio di tante vite umane, che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto l’eguaglianza tra le persone, non consentono l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita economica, sociale, culturale, civile e politica del paese, si è detto moltissimo. Praticamente tutto. Perché si è caricato la Repubblica di un impegno perenne, continuo. Non fosse altro perché si è data ad essa un traguardo ed un orizzonte che non è mai definitivamente e pienamente raggiungibile. Ma ciò nulla toglie al fatto che questo fine debba essere continuamente ed instancabilmente perseguito. Con il contributo dello Stato e la contestuale partecipazione dei gruppi sociali intermedi.
Questa concezione spiega perché i costituenti di ispirazione Cristiano-Sociale si siano sempre opposti alle ricorrenti pretese di progetti di stravolgimento della Costituzione. Come molti ricorderanno, ciò si è infatti verificato sia in rapporto al disegno definito “organico”, elaborato dalla Bicamerale presieduta da D’Alema, ed (una decina di anni dopo) al tentativo pericoloso e confuso del centro-destra, bocciato poi con voto popolare, definito “a blocchi” e riferito all’intera Parte seconda. E’ opportuno richiamare questi precedenti perché, negli indirizzi di governo che ha avviato la nuova legislatura, il tema è stato riproposto come cruciale. Al punto che è stato addirittura nominato un ministro per le riforme istituzionali ed è stata prevista, la costituzione di una “Bicameralina”, composta da 20 deputati ed altrettanti senatori. In sostanza una riedizione in formato ridotto della Bicamerale di 15 anni fa. Sulla base delle indicazioni del Governo ed approvate dal Parlamento, il “Comitato dei 40” dovrà rivedere la seconda parte della Costituzione e, nello specifico, definire una “diversa forma dello Stato”, una “nuova forma di governo” ed abolire il bicameralismo perfetto.
In attesa che le proposte di revisione costituzionale e di definizione della nuova architettura istituzionale vengano perfezionate ed anche per assecondarne il definizione, il governo si è inoltre impegnato a nominare una “commissione di esperti” esterni al Parlamento. La cui funzione e soprattutto legittimità restano al momento oscure. L’aspetto che colpisce e preoccupa è il fatto che il governo, per bocca del premier Letta, ha considerato questo percorso “una occasione storica che deve essere assolutamente colta” ed alla quale “si lega la vita della legislatura”. Ma perché Mai? E soprattutto perché mai deve essere il governo ad assumersi il compito di promuovere e far camminare una “riforma costituzionale”?
Tanto più che ci sono un paio di modifiche (utili e di buon senso, come la riduzione del numero dei Parlamentari e la trasformazione del Senato in un organo rappresentativo delle Regioni) che possono essere benissimo fatte senza bisogno di istituire “Bicameraline”, commissione di “esperti” finalizzate ad un cambiamento radicale dell’architettura istituzionale, ma semplicemente facendo lavorare le Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato.
Tuttavia, ciò che preoccupa concretamente non sono soltanto gli intenti ed il percorso bizantino prospettato, quanto piuttosto il fatto che la stessa durata della legislatura venga subordinata ad una riscrittura complessiva della seconda parte della Costituzione. A proposito di tale ipoteca, una delle spiegazioni più semplici e più a portata di mano è che si tratti dell’impegno relativo ad uno dei punti “programmatici” che avrebbero consentito la costituzione della maggioranza di “larghe intese”. Se così fosse una domanda diventa ineludibile: si può sacrificare la Costituzione per tenere insieme una maggioranza anomala, una parte della quale ritiene che la “pacificazione” presupponga (contestualmente alla difesa degli interessi personali e giudiziari del proprio leader) anche la rimozione di tutto ciò che nasce dalla Resistenza? Un’altra possibile spiegazione è che attorno al tema di una radicale revisione della Costituzione si è da tempo concentrata una enfasi mediatica tale da farla considerare una questione ineludibile. Oltre tutto largamente condivisa. E proprio per questo le forze politiche asseconderebbero un progetto (allo stato del tutto confuso ed indeterminato) nella speranza di poterne ricavare popolarità e consenso.
Per quanto li ho conosciuti, credo di poter dire che a tale calcolo cristiani e “repubblicani” autentici come: Zaccagnini, Dossetti, Lazzati, La Pira, Don Mazzolari ed altri, non avrebbero esitato a rispondere con Luca (Lc 6, 26): “Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi!”. Questa, a mio avviso, non è l’ultima delle ragioni per la quale nel dibattito pubblico si sente forte la loro mancanza.
30 maggio 2013
Pierre Carniti
contributo dell'autore ad una pubblicazione della Fondazione Donati in occasione del 25° anniversario della morte di Zaccagnini