di Pierre Carniti
A ottantadue anni di età, il 21 giugno se ne è andato, nella sua Reggio Emilia, Pippo Morelli. Il nome di Pippo Morelli probabilmente dice poco o nulla all’ultima generazione di sindacalisti. Da vent’anni, infatti, un grave ictus lo aveva messo fuori gioco. Nel suo caso quindi la morte si è comportata come il pescatore con cui lo scrittore russo Turgenev raffigura la morte. Il pescatore piglia il pesce nella rete ma per un po’ lo lascia in acqua. Il pesce nuota ancora, ma ha tutt’intorno la rete e li dentro resterà fino a quando il pescatore non deciderà che è arrivato il momento di tirarlo su. Questo momento, per Pippo, ha coinciso con l’arrivo dell’estate 2013. Ora rimangono soprattutto i motivi di rimpianto tra quanti l’hanno conosciuto ed hanno beneficiato della sua amicizia, ma anche per l’intero sindacato che sulla sua eredità dovrebbe ritrovare non pochi elementi di riflessione.
Qui mi limito suggerirne tre: il rapporto società ed economia; la politica sindacale unitaria; il ruolo della formazione degli adulti. Sono questioni che, sebbene siano state rimosse nella pratica quotidiana, mantengono un significato ed un valore imprescindibile. Per questo spero che altri riprendano ed approfondiscano la ricerca. Magari proprio a partire dall’impegno che su di esse ha profuso Morelli.
Sul primo tema. Secondo Pippo Morelli, l’idea dominante (soprattutto nella cultura liberista) secondo la quale le nostre società ed il mondo devono essere divisi in entità economiche in contrapposizione e competizione perché questo è ciò che la loro natura richiede, è una pura e semplice sciocchezza. Le economie competitive a cui vengono subordinate le esigenze sociali esistono perché le forze dominanti hanno deciso di dare loro questa forma. La competizione è un surrogato sublimato della guerra. Ma la guerra (economica, finanziaria, fiscale, sociale) non è affatto inevitabile. Se si acconsente alla guerra si può subire la guerra, ma se si vuole la pace si può scegliere e battersi per la pace. Se si accetta la logica della rivalità si può subire la rivalità, ma si può anche decidere che le società progrediscono di più se si fondano sulla solidarietà e la cooperazione e quindi sul contrasto alle diseguaglianze. Questo tanto a scala nazionale che internazionale. Per uscire dal pantano nel quale siamo precipitati non bastano perciò politiche anticicliche più o meno plausibili. Serve, innanzi tutto, una nuova concezione dei rapporti sociali.
Sul secondo. Morelli è sempre stato convinto che nelle lotte sociali al sindacato non basta avere ragione, ma deve anche sapere esprimere la forza necessaria a farla valere. E questa forza per i lavoratori e loro organizzazioni dipende innanzi tutto dall’unità che sono capaci di realizzare. Il tema rimane di straordinaria attualità, anche se negli ultimi tempi ci sono stati alcuni significativi segnali di ripresa dell’iniziativa unitaria. Mi riferisco in particolare allo sciopero generale del 26 marzo ed alla manifestazione nazionale unitaria organizzata da Cgil, Cisl ed Uil in giungo a Roma. Ma anche all’intesa sulla rappresentanza sottoscritta dalla tre confederazioni con la controparte padronale. Quest’ultimo è certamente un passo importante perché, dopo lunghi contrasti, ha consentito di definire le regole con le quali gestire il dissenso quando esso si verifica. Tuttavia, bisogna dire che nella prospettiva di una vigorosa azione unitaria il problema non è solo di regolare il dissenso, quando malauguratamente si manifesta, ma anche e soprattutto come costruire le convergenze. Il punto critico, infatti, è che in occasione di alcuni importanti negoziati (non tutti fortunatamente) sembra andata in disuso l’esigenza di affrontare le trattative partendo da piattaforme unitarie. E’ ovvio che le piattaforme unitarie non costituiscono una cauzione assoluta contro il rischio di accordi separati. Ma è del tutto certo il contrario. Nel senso che, salvo una congiunzione astrale particolarmente favorevole, le piattaforme separate non portano quasi mai ad accordi unitari.
Come sappiamo, le difficoltà nella costruzione di una solida convergenza unitaria sono di solito motivate (dentro e fuori il sindacato) con l’esistenza tra le diverse organizzazioni di “differenze sulle politiche”. Spiegazione, a mio giudizio, tanto semplicistica quanto inconsistente. Perché le differenze sulle politiche ci sono sempre state, ci saranno sempre, ci sono anche all’interno di ogni organizzazione. E quando non si manifestano è un brutto segno. Perché vuol dire che non si discute abbastanza. Perché l’apparato, di fatto, anestetizza il dibattito.
Il problema vero semmai è con quali metodi e con quali mezzi le differenze, quando esistono e si manifestano, possono essere ricondotte a sintesi unitaria. Quindi il vero nodo da sciogliere è in che modo le organizzazioni sindacali si mettono nella condizione di darsi finalmente delle regole appropriate (vale a dire autonome e condivise) per poter decidere assieme. Anche in presenza di orientamenti diversi.
Da questo punto di vista il ricordo di Pippo Morelli costituisce un incoraggiamento ed uno stimolo importante. Egli era infatti assolutamente convinto che senza unità non solo non è possibile conseguire risultati soddisfacenti nel negoziato, ma non si può nemmeno soddisfare il profondo bisogno di solidarietà che nasce dai lavoratori. Bisogno tanto più acuto in fase di profonda crisi quale quella con cui siamo alle prese. In ogni caso, non essendo inventato e dunque patrimonio di qualcuno, nessuna organizzazione è in grado di risolverlo da sola. Perché si tratta di un bisogno che nasce dalla sofferenza degli uomini e dalla loro riflessione sui disordini e le ingiustizie che li opprimono. Nessuno perciò è in grado di soddisfarlo senza l’apporto di tutti coloro che l’hanno tratto dal proprio destino.
Vengo infine alla questione della formazione degli adulti, della formazione permanente che è stata centrale nell’impegno e nell’esperienza di Morelli. Esattamente quarant’anni fa, il 19 aprile 1973, veniva firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici che consentiva la fruizione di un massimo di 150 ore di permessi retribuiti, con il fine di favorire la crescita culturale dei lavoratori, una loro migliore partecipazione alla vita sociale e, per chi ne fosse sprovvisto, il conseguimento del titolo di studio di scuola media inferiore. Una grande influenza su quella battaglia ha avuto il testo di Don Milani e dei ragazzi di Barbiana: “tu conosci trecento parole, il tuo padrone tre mila. Anche per questo lui è il tuo padrone”. Influenzati da quel convincimento e da ciò che costituiva elemento essenziale per il progresso sociale, proprio Pippo Morelli, assieme a Buno Trentin, Bruno Manghi, Tonino Lettieri, sono stati tra i principali artefici di quella storica conquista.
Purtroppo quello delle 150 ore, insieme all’intero apporto sindacale nell’educazione e formazione degli adulti, è uno dei temi “rimossi” dalla memoria e dall’impegno sindacale. Perciò ricostruire orizzonti ideali, modalità, percorso, declino di quella decisiva esperienza collettiva, che dai metalmeccanici si estese a tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato e che ha coinvolto negli anni oltre un milione mezzo di lavoratori, incidendo fortemente sulle loro conoscenze, sulle loro vite, sul movimento sindacale e sull’istituzione scolastica, non è semplice esercizio di nostalgia.
Intendiamoci: quarant’anni sono sicuramente tanti. Molti aspetti di contesto sono certamente cambiati. Ma per chi vuol correggere le ingiustizie e modificare il corso delle cose vale ancora l’insegnamento di Socrate: “Esiste un solo bene, la conoscenza, ed un solo male l’ignoranza”. Quindi non c’è dubbio che lo sviluppo di iniziative di formazione permanente continui a costituire una pratica di libertà ed un ineludibile contributo ad un processo di liberazione dall’asservimento e dall’oppressione. Questo, in ogni caso, era il fermo convincimento di Pippo Morelli.
Il mio auspicio è perciò molto semplice. Il suo ricordo non può risolversi unicamente in un motivo di rimpianto. Come avviene ogni volta un amico apprezzato e di straordinarie qualità morali ed umane ci lascia per sempre. Al contrario la mia ferma speranza è che la sua testimonianza contribuisca ad attivare una discussione vera ed un rinnovato impegno tra quanti sono investiti di responsabilità sociali perché, sia pure con gli adattamenti necessari, ne siano continuate le battaglie.