di Pierre Carniti
Nella documentazione propedeutica a questo convegno sono stati riproposti gli indicatori di diseguaglianza ricavati dal rapporto Ocse, dall’Organizzazione internazionale del lavoro e dall’Istat ed anche l’indice Gini, che misura l’ampiezza delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito. Questi dati ci dicono che siamo messi male. Peggio di quasi tutti gli altri paesi europei.
La domanda quindi è come si può correggere tale situazione. Il governo ritiene che le cose miglioreranno con l’aumento del Pil e le sue previsioni in proposito sono più ottimistiche di quelle della Ue e del Fmi. Ma quand’anche si verificassero (+ 1,1 per cento, invece di 0,6/0,7) non significa affatto che le diseguaglianze siano destinate a ridursi.
La teoria che l’aumento del Pil sia come la marea che fa alzare tutte le barche è contraddetta dai fatti. Intanto perché dipende da chi si approprierà della quota maggiore della crescita. Poi perché molte barche (come balene definitivamente spiaggiate) sono finite in secca e la sola marea non è più sufficiente a muoverle. Infine perché le statistiche hanno sempre dei limiti e vanno quindi interpretate.
In proposito vale tanto l’apologo del pollo di Trilussa, quanto l’ammonimento di Disraeli, secondo il quale esisterebbero tre tipi di menzogne: le bugie, le bugie gravi e le statistiche.
In particolare ai fini del contrasto alle diseguaglianze relativamente poco importa che il Pil cresca (ammesso che cresca), ma soprattutto chi si prende l’aumento. A questo riguardo non è nemmeno significativo l’andamento del reddito medio pro-capite, ma quello mediano. Il reddito medio pro-capite si ottiene infatti dividendo il Pil per il numero complessivo dei beneficiari, mentre la mediana è il baricentro. Divide cioè la metà che sta nella parte inferiore da quella che sta nella parte superiore. Di conseguenza quando aumenta il Pil, se i pochi che stanno in alto si impadroniscono di una fetta maggiore anche il reddito medio cresce, mentre nelle stesse condizioni il reddito mediano diminuisce. Di questo dato però si dibatte poco o nulla e quindi anche le discussioni sulle diseguaglianze economiche zoppicano.
Inoltre le diseguaglianze economiche sono solo un aspetto dalle diseguaglianze sociali. In primo luogo dalla disoccupazione. Ormai le cifre della disoccupazione si alzano in piedi. Se infatti ai 3 milioni e 200 mila disoccupati ufficiali aggiungiamo gli scoraggiati, i cassaintegrati senza prospettive di riavere un lavoro, gli esodati, arriviamo a circa 6 milioni. Vuol dire che un italiano su dieci (compresi i neonati e gli ultrasettantenni) è senza lavoro. Questi sono i numeri di una tragedia sociale dagli esiti imprevedibili. Perché ogni famiglia ne è in qualche modo toccata. Infatti in ognuna c’è qualcuno che ha perso il lavoro, qualcuno che teme di perderlo, oppure qualcun altro che non riesce a trovarlo.
Intendiamoci: essere senza lavoro non significa necessariamente non fare nulla, o morire di fame. Come capitava regolarmente alle generazione dei nostri padri e dei nostri nonni. Anche se per molti questa prospettiva non è affatto scomparsa. Basti pensare non solo all’aumento di gesti disperati, ma agli oltre 5 milioni che si trovano in povertà assoluta. In tutti i casi significa sempre essere esclusi.
Sappiamo che molte cose relative al lavoro sono cambiate. E’ cambiata la cultura del lavoro, è cambiata l’organizzazione del lavoro, è cambiato il rapporto tra l’uomo ed il lavoro, ma il lavoro resta sempre un elemento imprescindibile di cittadinanza, di identità, di appartenenza. Non a caso: “Che fai?” è la domanda che le persone quando si incontrano si scambiano per riconoscersi. A conferma di quanto il lavoro, nei rapporti sociali ed interpersonali, costituisca un elemento di identificazione irrinunciabile.
Quindi la mancanza di lavoro non è solo un ostacolo al miglioramento delle condizioni di vita ed alla crescita economica. E’ un fattore intollerabile di diseguaglianza, di esclusione, di allontanamento, di messa ai margini e quindi un rischio alla lunga insopportabile per la coesione sociale.
La Costituzione: patto fondativo o spot?
La Costituzione all’articolo 1 si apre ponendo il lavoro a fondamento della Repubblica e perciò come presupposto di ciò che ne deve seguire e derivare. In sostanza: dal lavoro le politiche economiche, dalle politiche economiche l’economia. Purtroppo oggi ci ritroviamo invece in una situazione completamente rovesciata. Dall’economia (soprattutto nella sua variante europea, ma non solo) dipendono infatti le politiche economiche, ed a queste vengono subordinate l’adattamento dei livelli di occupazione come le condizioni ed i diritti del lavoro.
Il lavoro è diventato quindi un elemento subalterno, funzionale all’aggiustamento di fattori diversi con i quali deve dimostrarsi compatibile. La richiesta di una sempre maggiore “flessibilità” (che porta ad essere “precari da giovani e poveri da anziani”, come dice l’Ocse) ne è una conferma. Quindi, poiché non sono gli altri fattori a dover dimostrare la loro compatibilità con il lavoro è il lavoro che da “fondamento” si è, di fatto, trasformato in un elemento sottomesso.
In ciò contraddicendo l’articolo 3 della Costituzione che dell’articolo 1 deve essere inteso come sviluppo e specificazione. In effetti, il combinato disposto dei due articoli ci dice che il significato profondo del collegamento stabilito dalla Costituzione fra democrazia e lavoro sta nel riconoscimento che la questione democratica è questione del lavoro. E del lavoro libero e dignitoso. D’altra parte, diciamocelo chiaramente, cosa può importare della democrazia a chi è deprivato di un lavoro che gli dia identità, cittadinanza piena e quindi gli permetta di affrontare le difficoltà della vita propria e dei propri famigliari. E di poterle affrontare in un quadro di realistica e ragionevole speranza?
Perdurando l’attuale contesto diventa perciò assai arduo continuare a definire la Repubblica “fondata” sul lavoro senza cedere allo sgradevole convincimento che in realtà si tratti di un inganno. Di un vuoto spot. Per altro in assenza di una reale correzione dei termini della situazione, la stessa democrazia può diventare facile bersaglio dell’accusa di essere soltanto forma che maschera una illusione, un abbaglio. I rischi sono gravi e non andrebbero sottovalutati. Il disamore ed il rifiuto della politica, l’allontanamento dal voto, sono tutte spie allarmanti. Perché ci ammoniscono che la democrazia non è un destino. Ma è sempre una conquista.
Si può giocare senza regole condivise?
Occorre quindi non indietreggiare rispetto alla necessità di combattere continuamente e con determinazione la battaglia contro le diseguaglianze che opprimono la società. La base imprescindibile di tale impegno è che deve essere presa sul serio la Costituzione e quindi il riferimento e l’attuazione dei suoi principi fondamentali. L’assunto inderogabile, che non dovrebbe mai essere offuscato è che con la Costituzione si è inteso dare vita ad un ordinamento democratico, pluralista, personalista e comunitario, fondato sul lavoro (per ciò che rappresenta il lavoro nella vita delle persone) ed ispirato all’eguaglianza ed alla pari dignità delle persone.
Del resto quando si scrive in un documento solenne come la Costituzione (nata dalla Resistenza, costata tanto dolore e tanto sangue) che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto l’eguaglianza tra le persone, non consentono l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita economica, sociale, culturale e civile del paese, si è detto moltissimo. Praticamente tutto. Perché si è caricato la Repubblica di un impegno perenne, continuo. Perché si è data ad essa un traguardo, un orizzonte che non si raggiunge mai una volta per tutte. Ma ciò non toglie nulla al fatto che questo fine debba essere continuamente ed instancabilmente perseguito.
A tale scopo i padri costituenti hanno previsto che venissero utilizzate le strutture funzionali descritte nella seconda parte della Costituzione. Appunto come “mezzi” giuridici ed istituzionali adeguati al perseguimento di quei fini. Bene delineati nella prima parte. Tuttavia, da tempo e con particolare intensità dall’inizio della nuova legislatura, la “vulgata” politica mediatica sostiene che siano indispensabili “riforme istituzionali” che comportano una sostanziale riscrittura di tutta la seconda parte.
A questo scopo è stata istituita una apposita commissione composta da 20 deputati e 20 senatori, affiancata da un comitato di esperti con l’incarico di redigere il progetto. E perché il cammino possa risultate spedito è stata ipotizzata anche una preoccupante procedura derogatoria all’articolo 138 che regola le modifiche costituzionali. E’ probabile che, come per precedenti altri assalti alla Costituzione tutto finisca con un buco nell’acqua. Tuttavia, poiché il tema continua a fare parte dell’agenda politica e parlamentare sono utili un paio di osservazioni. La prima.
Sebbene “res pubblica semper reformanda est”, ci si dovrebbe guardare dalla pretesa dissennata di riscrivere metà della carta fondamentale. Per tante ragioni. Ma soprattutto perchè nell’impostazione costituzionale sussiste una consequenzialità (così l’hanno pensata ed intesa i costituenti) tra la parte seconda (ordinamento) e la parte prima (principi fondamentali) che vede nella seconda la parte strutturale e realizzativa dei fini della prima.