di Pierre Carniti
1 – la situazione del lavoro è sempre più grave. La precarietà tracima e la disoccupazione dilaga. Siamo quindi in presenza non solo di una drammatica questione sociale ed economica, ma anche di una potenziale minaccia alla democrazia. La democrazia infatti non è una conquista che si fa una volta per tutte. Ma vive solo se è costantemente coltivata. Altrimenti deperisce. Con conseguenze disastrose. Come succede quando, con colpevole imprevidenza, il giardiniere decide di non sarchiare il prato solo perché l’estate è stata umida.
Il linguaggio della politica affoga spesso nella retorica della scelta, della libertà. Parlo di retorica perché l’idea dominante degli ultimi decenni è che siano la proprietà privata ed i mercati, guidati dal profitto, a garantire la libertà. Il che significa che la libertà dipende in definitiva solo dal denaro di cui si dispone. In effetti, nella cosiddetta società di mercato, con la politica sempre più relegata ad un ruolo marginale, è il denaro che permette di acquistare libertà. Ma la libertà concessa dal mercato è spesso una illusione. Per la buona ragione che i prezzi per una alimentazione sufficiente, per una abitazione dignitosa, per una istruzione accessibile a tutti, per cure sanitarie tempestive ed efficaci, sono sostanzialmente fuori dalla portata di persone in crescente difficoltà. Ben 28 milioni, secondo il ministro Passera. Sicché il divario tra la progressiva perdita di lavoro e di reddito ed il costo della libertà è tale che per loro la parola “libertà” tende ad indicare, in misura crescente, tutto ciò a cui non possono aspirare.
Si potrebbero fare molti esempi. Mi limito a quello della salute. Come sappiamo la spesa sanitaria pubblica è da tempo sottoposta a consistenti cure dimagranti. Per contraccolpo quella privata esplode. Così che negli ultimi dieci anni gli italiani hanno speso di tasca propria il 25 per cento in più per avere accesso alle cure. Ma la crisi morde, e parallelamente aumenta il numero di cittadini che, anche se ne hanno bisogno, rinunciano a curarsi. E’ il diritto negato alla salute. Negato a tante donne, a molti anziani, a numerose famiglie con figli. Negato perché i tagli alla spesa pubblica significano riduzione delle prestazioni gratuite. Negato dalle liste di attesa e dai disservizi. Secondo una indagine del Censis (presentata il 5 giugno a Roma) dei 9 milioni di persone che non sono più in grado di accedere alle cure il 61 per cento sono donne, 2,4 milioni sono anziani, 4 milioni vivono al sud, 5 milioni sono coppie con figli. Questa è la foto impietosa di chi, solo nell’ultimo anno, sarebbe stato costretto a rinunciare alle cure sanitarie per mancanza di mezzi. Insomma, nella terra degli uomini liberi il mercato non lascia molte possibilità a chi non può permettersele. Dunque chi non ha lavoro è anche deprivato di libertà.
Essendo questi i termini del problema la prima cosa da fare è quella di attivare una seria battaglia per “il diritto ad avere diritti”. A cominciare naturalmente dal “diritto al lavoro” e dai “diritti del lavoro”. Nel suo Le origini del totalitarismo Hannah Arendt osserva: “Le persone private dei diritti umani [….] sono prive non [solo] del diritto alla libertà, ma del diritto all’azione; non del diritto a pensare […] ma del diritto a far valere la loro opinione. Ci siamo accorti dell’inesistenza di un diritto ad avere diritti solo quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso”. La storia ci dovrebbe insegnare che quando i diritti deperiscono la democrazia regredisce. Purtroppo è una lezione che troppo spesso viene ignorata.
2 – A rendere più cupe e drammatiche le prospettive del lavoro è intervenuta la crisi economico finanziaria che ora rischia di precipitare nel dissesto dell’euro. Dissesto al quale la élite politica dell’eurozona si dimostra incapace (e qualcuno probabilmente nemmeno troppo voglioso) di porvi rimedio. L’enorme differenza nei rendimenti fra titoli italiani e tedeschi fa ormai parte della cronaca quotidiana. Il 3 giugno il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli ha scritto che si possono fare tutti i sacrifici di questo mondo, ma non è sostenibile una unione monetaria nella quale una azienda italiana si finanzia pagando il denaro cinque o sei volte più caro della propria concorrente tedesca. In una situazione simile, si possono fare salti mortali, imporre dissennate diete dimagranti ai salari ed alla protezione sociale, ma prima o poi l’azienda tedesca sottrarrà quote di mercato a quella italiana e poi alla fine se la mangerà. In effetti ha poco senso una moneta unica se il suo valore, e dunque anche il suo reale potere d’acquisto, cambia a seconda della latitudine e del clima. O se, come è accaduto nell’ultimo mese, 200 miliardi di capitali sono affluiti in Germania dai paesi mediterranei dell’eurozona, consentendo ai tedeschi di finanziare il loro debito (che in percentuale è minore, ma in valori assoluti è superiore al nostro) addirittura a tassi reali negativi. Cosa che ha fatto dire a De Bortoli che “i paesi in difficoltà hanno certamente le loro colpe, ma non si mai visto (nemmeno nella letteratura fantasy) che un povero prestasse i soldi ad un ricco e questo pretendesse pure di essere pagato, mettendo in atto una sorta di usura alla rovescia”. Al contrario di De Bortoli personalmente l’ho già visto. Anzi lo vedo tutti i giorni, quando constato come e da chi sono pagate le tasse in Italia.
Resta comunque il fatto che l’euro così com’è non può funzionare e se dall’attuale situazione di limine litis si dovesse arrivare ad una sua esplosione le conseguenze sul lavoro, già drammatiche, diventerebbero catastrofiche. Come si dice al futuro si dovrebbe sempre guardare con ottimismo, ma, se si considera lo stato attuale, l’Europa sembra sfuggire a questa regola. Immagino che al vertice di fine giugno qualche aggiustamento verrà escogitato. Ma, stante le premesse, è piuttosto difficile che possa risolvere. Sarebbe quindi opportuno subordinare il voto per l’approvazione del fiscal compact ad un cambio di passo dell’Europa sulla crescita e sugli eurobond. Tanto più che finché si resterà inchiodati alla formula del “rigore e dello sviluppo”, cioè alla improbabile conciliazione tra politiche restrittive e crescita, dalla depressione non si esce. Anzi, si rischia solo di aggravarla. Del resto per capire che quella ricetta non potrà mai funzionare non serve il master in economia. Basta la sapienza contadina, la quale insegna che nessuno è mai riuscito a succhiare e fischiare simultaneamente.
3 – Accanto ai problemi derivanti dalla gestione inadeguata (per non dire dissennata) della moneta unica, ci sono quelli interni. A cominciare per il punto che qui ci interessa, della “non politica per l’occupazione”. Il problema può infatti essere affrontato realisticamente solo se si parte dal dato di fatto che il lavoro che c’è lascia a piedi tantissimi. E che perciò le misure che hanno impegnato il parlamento ed i media, relative alle cosiddette riforme delle pensioni e del mercato del lavoro, indipendentemente del giudizio di merito (ed il mio è assai critico, sia sotto il profilo dell’equità che della efficacia) non hanno migliorato di una virgola i termini della questione. In effetti se si vuole invertire la tendenza, altrimenti irrefrenabile, all’aumento della disoccupazione e dunque alla recessione la scelta assolutamente prioritaria non può che essere quella di “puntare al rafforzamento della domanda”. Anche il premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz lo ha sostenuto con Monti, facendogli presente che: “quando non c’è domanda cala l’occupazione, si blocca la crescita, e quindi diminuiscono anche le risorse a disposizione del governo per fare qualunque cosa. Inclusa la riduzione del debito”. Esattamente ciò che si sta verificando. Il problema decisivo è dunque l’aumento della domanda. In assenza, le cosiddette riforme riferite al lavoro servono solo per l’immagine. “Pour épater les bourgeois”.
Ma come si fa ad aumentare la domanda? Assieme ad alcune misure per lo sviluppo che il governo si accinge a varare oggi (sperando che siano efficaci e non dissipatrici delle scarse risorse disponibili) le possibilità vere sono essenzialmente due: o si aumentano i salari, o si riducono le tasse sui salari. Nella attuale congiuntura credo che la seconda opzione sia da preferire alla prima. Tanto più tenuto conto che deteniamo il non invidiabile record europeo di tasse sui salari. Il che, assieme alle basse retribuzioni, ci rende anche primatisti europei delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito. E questa non è certo l’ultima delle ragioni che spiega perché, nella crisi generale, noi siamo messi peggio degli altri. L’aumento della domanda è quindi un obiettivo urgente, essenziale, assolutamente ineludibile. Tuttavia, ai fini di un rapido aumento dell’occupazione esso è necessario ma non sufficiente. Per ottenere risultati adeguati alle necessità si deve infatti accompagnarlo anche con una riduzione degli orari ed una diversa ripartizione del lavoro. Le modalità di attuazione sono naturalmente molteplici. Inclusa una significativa espansione del part-time volontario. In quanto ci sono molti che vorrebbero lavorare ma, per la loro condizione famigliare od i loro progetti di vita, possono farlo solo a particolari condizioni. In ogni caso, il punto da avere chiaro è che se si eludono queste linee concrete di intervento, non sarà possibile imprimere la svolta necessaria ad una situazione che è ormai arrivata ad una drammatico punto di rottura.
4 – Anche quanti tendono a minimizzare i problemi sanno benissimo che la situazione sta superando ogni sorta di tollerabilità politica e sociale. In particolare nel Sud. Sappiamo che nel 2012 il Pil Italiano continuerà a diminuire. Dell’1,3 per cento (secondo le previsioni più ottimistiche) e del 2 (secondo quelle più pessimistiche). Con una differenza. Mentre al Nord la diminuzione sarà dello 0,8, al Sud arriverà al 2,9 per cento. Ed in Campania si toccherà un record assoluto. Qui infatti la decrescita arriverà al 3,2. Quattro volte peggio rispetto alle regioni del Nord. Risultato: se si sovrappone la situazione della Campania e di altre regioni del Sud a quella della Grecia non si rilevano significative differenze. Sarebbe bene rendersene conto. Prima che sia troppo tardi.
Nella linguaggio politico si usa spesso la formula: non c’è tempo da perdere. Temo che si sia già determinata una pericolosa frattura. Il rischio infatti è che ormai sia il tempo a perdere noi. Certo, rimediare ad una situazione così complessa ed impegnativa non è facile. Anche per la buona ragione che non ci sono mai soluzioni facili per problemi difficili. La politica è quindi chiamata ad una vigorosa assunzione di responsabilità. In contrasto con una diffusa vulgata mediatica, personalmente ho sempre ritenuto che luoghi decisivi per dare consistenza e credibilità a speranze collettive ed annodare le dinamiche del necessario cambiamento, siano i partiti democratici e progressisti e le grandi forze sociali organizzate. Gli uni e le altre, quando hanno saputo trovare la necessaria unità, hanno infatti storicamente permesso di contribuire alla razionalità politica ed al cambiamento, con la capacità di raccogliere esigenze di partecipazione e di identificazione intorno al bisogno di equità, ad un sogno ed una speranza condivisa. Il fatto che i partiti e le grandi organizzazioni collettive, specie nell’ultima fase, sembrano avere abbandonato questa loro funzione, credo sia una delle ragioni profonde che spiega la loro crisi e la loro attuale difficoltà ad agire per modificare il corso delle cose. Per risalire la china e battere il populismo ed il qualunquismo, altrimenti inarrestabili, servano perciò idee e programmi. Ma servono principalmente determinazione e passione. Le quali per esprimersi e farsi valere hanno a loro volta bisogno di ideali e di valori, ma soprattutto della capacità di lottare per essi.
Concludo quindi il mio intervento con un ricordo di Federico Caffè. Che per molti è stato un amico ed un maestro. Commentando l’affermazione di Parri che: “Non c’è ombra nella vita di chi ha la luce di un ideale”, Caffè non esitava ad aggiungere :“il mio non lascia margini al moderatismo opportunista”. In effetti essere ragionevoli e responsabili non ha mai voluto dire essere arrendevoli. Perciò, in questo momento che non è certo esagerato definire decisivo, spero che anche guardando a questa conferenza tanti italiani possano ritrovare il filo della speranza per il domani. Un domani che non sia la angosciante continuazione del presente. Ma una realtà nuova costruita nel rispetto dei valori democratici e di una Repubblica davvero “fondata sul lavoro”.