di Enzo Mattina (*) Da un’indagine pubblicata da L’Espresso il 26 aprile scorso si apprende che le lauree più richieste dalle aziende in questo nostro tempo di grande criticità per l’economia e per il mercato del lavoro sarebbero quelle in architettura, economia-statistica, indirizzo politico-sociale, psicologia, mentre soffrirebbero un calo di domanda ingegneria e discipline scientifiche, alla stessa stregua di giurisprudenza, discipline letterarie, filosofiche, storiche e artistiche.
Nel medesimo servizio viene pubblicata una tabellina ripresa dal XIV rapporto di Alma Laurea, pubblicato a inizio 2012, che segnala la percentuale di occupati per gruppo disciplinare a tre anni dalla laurea.
Anche questa classifica è abbastanza stupefacente, perché certifica che il 98% del gruppo medico avrebbe trovato occupazione, ma non specifica che sono i laureati in scienze infermieristiche a farla da padroni, mentre per oltre 60.000 medici gli spazi di lavoro in un sistema sanitario protetto a dismisura sono sempre più asfittici. E che dire del dato palesemente non credibile secondo cui architetti e ingegneri godrebbero di un uguale tasso di occupazione dell’85,3%, quando è notorio che la stragrande maggioranza dei giovani architetti lavora in nero o con miserabili contratti di lavoro parasubordinato? Addirittura fuori dal mondo, il posto nella classifica del placement, pari al 77%, assegnato ai neolaureati del gruppo disciplinare insegnamento, seguito dal 71,7% assegnato ai laureati in psicologia, mentre i laureati in materie scientifiche si collocherebbero solo al 57,4%.
Non metto in dubbio la buona fede di un autorevole settimanale, qual’è L’Espresso, ma ho mille ragioni di riserva sulle modalità con cui Alma Laurea, Unioncamere, CentroMarca, i tre soggetti che hanno fornito i dati, costruiscono le loro statistiche. E ne traggo spunto per mettere in evidenza che la circolazione di notizie non veritiere in ordine alla domanda di competenze favorisce la scelta di percorsi di studio disallineati con la prospettiva di accesso nel mercato del lavoro e spiega l’inadeguatezza dell’offerta di formazione professionale, che necessariamente deve seguire l’acquisizione dei titoli di studio ai vari livelli.
Per porre rimedio a un’anomalia tanto evidente non è necessario mettere in cantiere una grande e costosa riforma, ma una normale operazione di trasparenza, che, utilizzando al meglio la disponibilità di supporti digitali, caso mai open source, coinvolga le imprese di qualsiasi settore, i grandi enti erogatori di servizi collettivi, gli operatori specializzati nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro nella messa a disposizione di dati reali e di previsioni ravvicinate così da disegnare le linee di tendenza del mercato del lavoro.
Si tratterebbe di strutturare una vera e propria borsa del lavoro, ben diversa da quella costosissima e inefficace voluta dal Ministero del lavoro, che giorno per giorno quantifichi la domanda in crescita e in calo di competenze per impieghi stabili o anche temporanei, ma standardizzati per retribuzioni e coperture assicurative. La diffusione dei dati con cadenza quotidiana sui media cartacei, digitali, televisivi, alla stessa stregua degli andamenti di borsa, dovrebbe consentire di definire periodicamente dei rates su cui regolare i termini di accesso ai percorsi scolastici dalle scuole superiori e alle università, promuovendo e facilitando di volta in volta l’ingresso ai più allineati con la domanda del mercato e rendendo più complesso quello ai meno allineati.
Per essere più chiaro, non si capisce il senso della stretta limitazione delle ammissioni a scienze infermieristiche, quando nel nostro Paese almeno da quindici anni si registra una carenza strutturale di infermieri professionali, ormai sistematicamente importati dall’Est europeo, dall’America latina e dall’Asia.
Basterebbe aumentare il numero delle facoltà e ampliare il numero dei posti a concorso per creare agevolmente alcune decine di migliaia di posti di lavoro.
Se, come dimostra la straordinaria tenuta dell’economia tedesca, con la quale abbiamo non pochi punti di contatto, abbiamo un bisogno crescente di ingegneri meccanici, elettrici, elettronici, non si capisce perché non si assicuri un forte sostegno ai giovani che si iscrivono a facoltà che richiedono impegno individuale elevato e anche costi non proprio modesti, in quanto esigono frequenza costante e impongono ottime conoscenze linguistiche, oltre che padronanza di programmi informatici complessi, di cui non sempre le Università dispongono per mancanza delle risorse finanziarie necessarie all’acquisto.
Perché non prevedere borse di studio, agevolazioni per periodi di permanenza all’estero, bonus per l’accesso a corsi di specializzazione informatica?
Da ultimo, in presenza di un tasso di disoccupazione che sfiora il 10%, non è accettabile l’inerzia dinanzi alla mancanza strutturale di operai specializzati, quali conduttori di macchine a controllo numerico, strutturisti, manutentori, tecnici dei materiali compositi, elettricisti, saldatori ecc., tutte figure professionali che da anni andiamo a ricercare all’estero.
Interroghiamoci su come si possa superare una contraddizione tanto eclatante.
In primo luogo, credo che sia necessaria una svolta culturale, che faccia giustizia di semplificazioni sociologiche che negli ultimi 20 anni hanno diffuso l’errata convinzione che l’aggettivo “postindustriale” appiccicato a un qualsiasi sostantivo potesse di per sé dar luogo a processi di smaterializzazione così diffusi e profondi da non rendere più necessario il saper fare, considerato con grande disinvoltura roba di altre epoche.
E’ il tempo di rivalutare i mestieri, di ridare valore al lavoro manuale (oggi, per altro, nella maggior parte dei casi, meno gravoso che nel passato), prevedendo una maggiore remunerazione nelle scale tariffarie contrattuali e più solide protezioni sociali. Soprattutto è urgente e indispensabile riabilitare le scuole professionali, distrutte, prima, da un ugualitarismo superficiale, che è la cifra della scolarizzazione di massa dispensatrice di diplomi a tutti, ma di competenze a pochi; successivamente, dalla moda del postindustrialismo.
In dipendenza di queste storture, la formazione professionale di mestiere si è progressivamente trasformata in una grande macchina dispensatrice di fondi statali ed europei governata dagli assessorati regionali a beneficio di una gran massa di enti senza fine di lucro (che ipocrisia!), il cui accreditamento non dipende dalle attrezzature, dai supporti didattici, dalla qualità dei programmi di cui dispongono, ma dalla metratura delle aule e dei servizi igienici e dal possesso di una dotazione di computer anche di vecchia generazione, purché posti alla debita distanza l’uno dall’altro.
E’ evidente che questo sistema non serve al nostro sviluppo economico, al superamento del disagio dei giovani che non riescono a vedere la linea d’orizzonte del loro futuro; non è coerente con le esigenze del nostro apparato produttivo di tenere il passo con le innovazioni del nostro tempo. Per sovra-mercato, nella fase recessiva che stiamo attraversando, invece di destinare le risorse pubbliche alla qualificazione professionale per valorizzare tutti i possibili sbocchi di lavoro, si sta assistendo al loro ennesimo uso improprio in direzione della riduzione del costo del lavoro e della distribuzione di surrettizi ammortizzatori sociali.
E’ duro doverlo ammettere, ma è così.
(*) Vice Presidente Quanta SpA